Le donne yazide vittime della violenza dello Stato Islamico rischiano di restare senza supporto medico e psicologico. La denuncia arriva da Murad Ismael, direttore di Yazda, charity con base nella città curdo irachena di Dohuk. Il centro, che ha anche documentato gli omicidi di massa commessi dall’Isis ed è l’unica tra le strutture di assistenza nella regione del nord dell’Iraq ad avere personale yazida, è stato chiuso dalle autorità curde che hanno accusato Ismael e i suoi collaboratori di essere coinvolti in attività politiche sovversive. “La fine delle attività di Yazda fa perdere l’unica possibilità di recupero per le yazide che hanno subito aggressioni sessuali o sono state ridotte in schiavitù dagli uomini di Al-Baghdadi”, ha dichiarato Ismael all’agenzia Reuters.

Gli yazidi costituiscono una piccola minoranza in Iraq, sono di etnia curda ma il loro credo nasce in epoca pre-islamica e si avvicina alle sette agnostiche del Vicino Oriente. Da secoli vivono sul monte Sinjar, nel governatorato iracheno di Ninive. Nell’estate del 2014, con l’avanzata dello Stato Islamico nei territori settentrionali dell’Iraq, migliaia di yazidi sono stati uccisi, circa 5mila persone secondo le stime delle Nazioni Unite.  Altrettanti o più sono stati, invece, obbligati ad arruolarsi o sottoposti a regime di schiavitù mentre le donne sono state oggetto di terribili violenze.

In un’intervista condotta dal giornalista Ja’far Abdul Karim nel suo programma Shabaab Talk trasmesso su Deutsche Welle lo scorso marzo, una sopravvissuta originaria di un villaggio iracheno nell’area di Tel Affar ha raccontato i giorni in cui è stata ostaggio dello Stato Islamico: “Alcune di noi sono state vendute ad altri militanti per due o più pacchetti di sigarette – ha ricordato la giovane – ci tenevano in una stanza separate dagli uomini e ciclicamente venivamo prese per essere violentate. Chi si rifiutava veniva immediatamente uccisa”. La ragazza, inoltre, ha raccontato di aver tentato diverse volte il suicidio, così come altre compagne di prigionia.

Lo scorso giugno, le Nazioni Unite, tramite una commissione indipendente, hanno definito le violenze contro gli yazidi un genocidio e hanno chiesto l’intervento della Corte penale internazionale. Al momento, secondo l’Onu, 3.200 persone tra donne e bambini – 3.735 secondo il governo regionale curdo – sarebbero ancora tenute prigioniere dai miliziani dell’Isis che a distanza di anni continuano a perpetrare soprusi contro la popolazione.

Al momento non è chiaro quanti yazidi  siano detenuti nella città di Mosul, dove ormai da diversi mesi è in corso un’offensiva delle autorità irachene per liberare la città dalle milizie islamiste. Secondo quanto riportato da alcuni giornali internazionali, i soldati del califfato avrebbero già trasferito diversi prigionieri yazidi in Siria, in particolare nell’area della città di Raqqa. Un comandante dell’Isis operativo in Iraq ha dichiarato al Wall Street Journal che il gruppo “stava inviando le proprie risorse umane in Siria” con il progetto di compiere gli ultimi attacchi con l’utilizzo di kamikaze o di trappole esplosive prima di lasciare l’Iraq.

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