Dunque, succede che Teheran – quando mancano appena tre giorni alle cruciali elezioni generali del 26 febbraio – rinneghi la proposta di congelamento della produzione di petrolio (sui livelli di gennaio) avanzata nei giorni scorsi dall’Arabia Saudita, in accordo con la Russia, il Venezuela e il Qatar, e lo faccia in modo piuttosto arrogante, definendola “ridicola”, come ha detto Bijan Namdar Zanganeh, il potente ministro iraniano del petrolio. Il quale ha girato il coltello nella piaga, aggiungendo che pretendere dall’Iran una simile richiesta sarebbe “irrealistico”, perché guarda caso arriva “da chi produce 10 milioni di barili”, mentre l’Iran ha in programma un aumento della produzione di un milione di barili e non ha alcuna intenzione di rinunciarvi: “Se la produzione del’Iran dovesse diminuire, il nostro posto verrebbe preso dai Paesi vicini”.

Prima conseguenza: le dichiarazioni iraniane fanno scivolare il prezzo del petrolio ben sotto quota 31 dollari, e col petrolio scivolano giù le borse di tutto il mondo. Poi risalgono, ma non troppo, in attesa della decisione finale. Seconda conseguenza: da Houston, dove si trovava per un convegno con i petrolieri texani, Ali al-Naimi, ministro del petrolio di Riad, replica con burbanza che il suo paese può “convivere” con la crisi del barile sino a 20 dollari. Terza conseguenza: Caracas e Mosca accusano il colpo. Per il Venezuela, un ulteriore scivolone finanziario che ha messo a nudo l’estrema fragilità strutturale della sua economia. Lo stesso problema evidenziato dalla Russia, aggravato dalla fuga di capitali, dalla tossica dipendenza rispetto alle esportazioni energetiche, dalla mancata riconversione del suo apparato industriale ed agricolo, dall’instabilità monetaria, dall’inflazione endemica, dal sottosviluppo finanziario. Dulcis in fundo, il tradimento iraniano…

Ma è davvero tradimento? Mosca si trova nella difficile posizione di alleato “strategico” dell’Iran e di alleato “tattico” nel settore energetico dell’Arabia Saudita, con la quale aveva studiato il modo di fronteggiare la caduta dei prezzi. Nel frattempo, però, il quotidiano economico Vedemosti scrive che la potente Lukhoil, il gruppo petrolifero più importante della Russia e il secondo del mondo per riserve , avrebbe firmato un contratto per nuove prospezioni in Iran, nonostante l’azero Vagit Jusufovic Alekperov, presidente della Lukoil, avesse detto, nel dicembre del 2015, di essere rimasto deluso dall’atteggiamento di Teheran, troppo disponibile nei confronti della concorrenza internazionale. Quale la colpa degli iraniani? Quella di voler saggiare ed incoraggiare l’eventuale interesse delle compagnie petrolifere straniere nelle attività di ricerca ed estrazione del petrolio (l’Iran ha messo sul tavolo ben 52 progetti in questo senso). Ai russi, briciole: la Lukhoil porterà due milioni di tonnellate di benzina in Iran, in cambio del petrolio. Va ricordato che Alekperov è sempre stato leale col Cremlino.

Non più tardi di una settimana fa, il ministro della Difesa iraniana Hosein Dehqan aveva incontrato il collega russo Serghei Shogu per definire l’avvio di un negoziato sul fronte delle forniture militari, “non per attaccare” ma per “proteggere la nazione”. L’Iran ha bisogno di armi. Ha bisogno di modernizzare l’apparato militare. La Russia ha bisogno di incassare. E’ il secondo esportatore mondiale di armamenti (secondo l’istituto Sipri di Stoccolma vale il 25% del commercio globale di questi ultimi 5 anni). Tuttavia, nel 2014 e nel 2015, le esportazioni russe sono ritornate ai livelli annuali più bassi osservati nel quinquennio 2006-2010. Secondo gli analisti britannici e statunitensi, Teheran dovrà scucire almeno 13 miliardi di dollari per rinnovare il comparto militare.

Mosca offre la sua “cooperazione” sia nel settore militare che in quello tecnico-industriale. Non solo: l’Iran riconosce alla Russia un ruolo “consultivo” sulla “sicurezza della regione”. L’affare che Mosca vuole portare a termine – tra sistemi missilistici, di difesa costieri, jet multiruolo Sukhoi Su-30SM, aerei d’addestramento, elicotteri, fregate, sottomarini diesel, carri armati T-90 etc – superebbe gli 8 miliardi di dollari. Più tutta una serie di altri contratti da mettere a punto: motori per locomotori, vagoni per metropolitane, cento aerei Superjet-100, know-how tecnologico. E l’acquisto di greggio iraniano da smistare sul mercato europeo. Insomma, premesse e promesse.

Tuttavia, Mosca lusinga Riad, tradizionale “nemico” di Teheran, perfezionando l’accordo sul congelamento della produzione di petrolio: essendo consapevole che Teheran può fare shopping solo se vende più petrolio che può, per far cassa. Ha riserve immense, se lo può permettere di vendere i barili sotto quota 30 dollari. Mosca fa il doppio gioco? Conoscendo Putin, è assai probabile. Senza dimenticare la scadenza del 26 febbraio. E qui entriamo in un percorso politicamente minato.

Le questioni internazionali – quindi anche quelle legate alla gestione energetica – sono oggetto di aspri dibattiti all’interno dei cerchi di potere iraniani. Da un lato, i detentori degli ideali rivoluzionari del 1979 (corroborati dalla guerra contro l’Iraq) e l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad sembrano “in ritirata” dinanzi al realismo economico e al pragmatismo diplomatico sfoggiato dal presidente Hassan Rohani, che ha siglato importanti accordi commerciali con Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania nella sua “tournée europea” cominciata a Roma (stendiamo un velo pietoso sulle statue coperte…).

La fine dell’isolamento dell’Iran coincide con una serie di iniziative “esterne” che denotano la volontà di diventare “potenza regionale”. E questo non è gradito dall’Arabia Saudita. Teheran afferma che vuole contribuire alla stabilizzazione della regione, però non si può non sottolineare il suo crescente attivismo militare a fianco dei russi in sostegno al regime di di Assad né si può ignorare come si stia accentuando la sua influenza in Iraq e nello Yemen (dove appoggia il movimento degli houti). Né si può scordare il saccheggio dell’ambasciata araba saudita a Teheran e la rottura delle relazioni diplomatiche con il reame degli al-Saud. Inoltre, puntare sulla crescita economica significa tacitare e accantonare (per il momento) quel messianismo rivoluzionario che aveva infiammato gli anni di Khomeini, la lunga e drammatica guerra con l’Iraq (dal 1980 al 1988), sino al mandato del presidente Ahmadinejad, risoluto nel suo confronto con l’Occidente sulla questione nucleare.

Ricordate l’obiettivo dell’Iran? Sradicare dal Medio Oriente l’imperialismo del “Grande Satana” americano, del suo alleato israeliano. Non illudiamoci, comunque: l’Iran non sarà mai – almeno a breve termine – un pilastro della sicurezza collettiva. Semplicemente, ha cambiato la tipologia della conflittualità. La lotta mortale coi nemici si è trasformata in politica di potenza nei confronti dei rivali tradizionali: gli Stati Uniti, l’Arabia Saudita, la Turchia (che ha le stesse ambizioni regionali). E l’alleato russo. (non a caso il sito di Gazeta.ru, testata di buona reputazione giornalistica, apre con questo titolo: “La Russia ha perso in Iran”).

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