“Guadagnava 50 sterline al giorno lavorando in ospedale. Ma i soldi non le bastavano a pagare la rata del mutuo, così ha deciso di diventare una squillo”. Questa è una delle storie delle prostitute inglesi, ritratte in uno dei più grandi sondaggi mai fatti sul mondo delle sex workers d’Oltremanica. Secondo il report, prima di vendere il loro corpo, più del 70% lavorava in aziende sanitarie, nel settore educativo o in organizzazioni benefiche, mentre oltre un terzo ha una laurea. Lo studio dell’Università di Leeds, presentato a inizio marzo a Manchester, si è concentrato anche sulle pressioni che possono portare una donna a prostituirsi, tra cui “l’incapacità a sostenere spese ordinarie” oltre alla “bassa retribuzione dei dipendenti del National Health Service (il sistema sanitario nazionale inglese, ndr)”.

“Ero dipendente in una struttura sanitaria; avevo un mutuo che non sono riuscita a pagare e così ho perso anche la casa – racconta una delle donne nel questionario – Ho deciso che volevo una vita più facile e a quarant’anni sono diventata una prostituta. Ci vuole empatia per entrambi i lavori che ho fatto nella mia vita: otto uomini su dieci chiedono solo affetto e parole”. Intervistate 240 prostitute (tra cui 196 donne, 28 uomini e 12 transgender) che, secondo l’Università di Leeds, hanno dichiarato di non essere vittime di traffico ma di aver scelto liberamente una professione “flessibile” per quasi tutti gli intervistati (91%) e “gratificante” per uno su sei. Perché vendere il proprio corpo nel Regno Unito non è illegale, al contrario di bordelli, induzione e sfruttamento. Oltre la metà degli intervistati, infatti, lavora in appartamenti e non sulle strade.

Il sondaggio mostra quindi la vita dei lavoratori prima di entrare nell’industria del sesso: dopo le occupazioni in ambito educativo e sanitario (71%), la seconda professione più diffusa era quella di commesso (33,7%), mentre per quanto riguarda l’istruzione, il 38% ha una laurea di primo livello mentre il 17% una di secondo livello. Dando uno sguardo alle tariffe, la maggior parte degli intervistati guadagna meno di 1.000 sterline al mese (meno di 1.400 euro) ed è quindi obbligata a fare anche altri lavori senza svelare, però, la sua professione serale. Il 71%, infatti, dice vivere nella paura che questa venga scoperta.

Secondo la sociologa a capo dello studio Teela Sanders, il report vuole migliorare la conoscenza del mondo dei sex workers, riducendone le discriminazioni e permettendo loro di denunciare abusi e condizioni di lavoro fuori legge. La ricerca, infatti, ha anche messo in luce come il 47% delle prostitute sono state vittime di reati sul posto di lavoro, tra cui stupro e rapine, mentre il 36% ha subito minacce da clienti. Tanto che una delle donne intervistate, quando le è stato chiesto di elencare gli aspetti negativi del suo lavoro, ha risposto: “La possibilità di essere stuprata e non essere in grado di innamorarmi”. Altro punto centrale della ricerca è il rapporto tra lavoratori sessuali e polizia, responsabile di frequenti incursioni negli illegali bordelli inglesi. “La nostra speranza è che in futuro possa essere permesso a più prostitute di lavorare insieme nello stesso appartamento senza che questo sia considerato un bordello – racconta la sociologa al quotidiano inglese The Guardian – Solo in questo modo i sex workers lavoreranno in sicurezza. Ma prima la società dovrebbe eliminare il pregiudizio che ha nei confronti di questa professione”.

La stessa posizione è sostenuta dall’English Collective of Prostitutes (ECP), una sorta di sindacato delle prostitute inglesi: “In numero dei lavoratori del sesso che hanno subito rapine e stupri è rimasto simile negli ultimi trent’anni, ovvero il 47% nel 1981 e il 53% nel 2014 – racconta l’ECP – La richiesta di depenalizzare la prostituzione è fondamentale proprio perché la maggior parte delle prostitute che hanno denunciato gli abusi subiti alla polizia ha descritto la risposta degli agenti come ‘sprezzante’ e ‘pericolosa’”.

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