C’è una lettera che alla fine del 2012 arriva ai boss palermitani di Cosa Nostra. Una lettera importante perché proviene direttamente da Matteo Messina Denaro in persona, la primula rossa di Castelvetrano, l’ultimo padrino di rango rimasto in libertà. In quella missiva, Messina Denaro chiede formalmente ai boss palermitani di procedere con l’organizzazione dell’attentato per eliminare Antonino Di Matteo, il pm che indaga sulla Trattativa Stato-mafia. “Mi hanno detto che si è spinto troppo oltre” dice Messina Denaro ai rappresentanti delle famiglie mafiose, chiedendo di far fuori il magistrato. Il boss di Castelvetrano non spiega chi gli avrebbe suggerito quell’esecuzione, e d’altra parte ai boss non serve quell’informazione: ricevuta la lettera, organizzano un summit nel dicembre del 2012 per organizzare la fase operativa dell’attentato.

A raccontarlo ai magistrati è Vito Galatolo, il boss dell’Acquasanta, appartenente ad una famiglia con diverse entrature negli ambienti dei servizi segreti, che poche settimane fa ha deciso di “togliersi un peso dalla coscienza”: dal carcere dove è detenuto dal giugno del 2014 ha scritto direttamente a Di Matteo chiedendo d’incontrarlo, e poi gli ha spiegato ogni dettaglio di quel piano di morte già pronto per farlo fuori. Perché al summit del dicembre 2012, quello dove tutte le famiglie mafiose vengono messe al corrente della lettera di Messina Denaro, c’è anche Galatolo, che è anche uno degli uomini incaricati di recuperare il tritolo: esplosivo che il boss acquista pagandolo personalmente, e che poi arriva a Palermo per essere quindi nascosto in alcuni bidoni, oggetto delle ricerche degli investigatori nelle campagne tra Palermo e Monreale.

È questo il racconto dettagliato che Galatolo, oggi a tutti gli effetti un collaboratore di giustizia, ha messo a verbale davanti al procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari. Ed è per questo motivo che venerdì, il prefetto di Palermo Francesca Cannizzo ha incontrato il capo dei pm nisseni, e subito dopo è volata a Roma per informare il ministro dell’Interno Angelino Alfano: il responsabile del Viminale ha quindi subito convocato una riunione straordinaria del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica. Un incontro a cui hanno partecipato anche i vertici dei servizi segreti, il ministro della Giustizia Andrea Orlando e lo stesso pm Di Matteo, che non si è quindi recato a Johannesburg, in Sudafrica, per interrogare l’ex 007 Gianadelio Maletti, dove invece sono andati gli altri pm che indagano sulla Trattativa Stato-mafia. Il livello d’allerta per Di Matteo dopo le ultime rivelazioni di Galatolo è infatti massimo: il dato inquietante è rappresentato dal fatto che i racconti del boss s’incrociano e vengono implicitamente confermati da alcuni fatti di cronaca.

Nel marzo del 2013, e quindi appena tre mesi dopo il summit per ordinare la morte di Di Matteo, in procura arriva una lettera anonima: nella missiva, l’estensore – che si qualifica come un boss mafioso della famiglia di Alcamo – racconta di come “amici romani” di Matteo Messina Denaro, abbiano deciso “l’eliminazione di Di Matteo”, perché non volevano un governo fatto di “comici e froci”. Il periodo è quello delle elezioni politiche che hanno visto per la prima volta l’affermazione del Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo, in quel momento molto vicino all’azione di governo del presidente siciliano Rosario Crocetta. E mentre l’anonimo arriva in procura, Galatolo si sta già muovendo per recuperare il tritolo e far fuori Di Matteo: un attentato che aveva ricevuto il via libera da Totò Riina in persona, dopo un colloquio del capo dei capi con il figlio nel carcere di Opera a Milano.

Secondo gli investigatori è per questo motivo che mesi dopo il boss corleonese, colloquiando con Alberto Lorusso nell’ora di socialità mentre la Dia di Palermo lo intercetta, sbraiterà contro Messina Denaro, reo di occuparsi solo di affari e di non dedicarsi alle stragi: Riina vorrebbe un attentato spettacolare, nei più brevi tempi possibili. E infatti, come racconta Galatolo, l’ordine di far fuori Di Matteo non è mai stato ritirato: il piano di morte in pratica è ancora operativo e pronto ad essere messo in pratica. I boss avevano già studiato diverse modalità per eliminare il magistrato: prima tra tutte, la possibilità di utilizzare un’autobomba. “Dottore Di Matteo, i mandanti per lei sono gli stessi di quelli di Borsellino” ha detto Galatolo, parlando con il pm.

Mandanti che avrebbero ordinato a Messina Denaro l’eliminazione di Di Matteo “perché si era spinto troppo oltre”. Quali mandanti e in che modo il pm si sia spinto oltre non è oggi dato sapere. È un fatto però che Alfano, alla fine della riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, ha annunciato l’utilizzo di tutti gli apparecchi tecnologici possibili per scongiurare un attentato contro la toga palermitana. Nel dicembre del 2013 il ministro aveva dichiarato l’imminente arrivo del bomb jammer per proteggere il magistrato. Un anno dopo, il dispositivo in grado di neutralizzare gli ordigni esplosivi non è ancora stato messo a disposizione della scorta del pm: ora però il racconto di Galatolo ha fatto aumentare l’allerta istituzionale, e il Csm tornerà per la seconda volta in due anni a riunirsi a Palermo. Dove il tritolo per Nino Di Matteo è già nascosto da qualche parte.

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