Un detto ben conosciuto tra gli operatori di Wall Street recita: “Se devi un milione a una banca hai un problema, se ne devi un miliardo il problema è della banca”. E se il debito è di mille miliardi? A tanto (e oltre, circa 1,3 trilioni) ammonta il debito degli Stati Uniti nei confronti della Cina, il suo più grande creditore estero detenendo tra il 7 e l’8% del debito totale. L’interesse di Pechino però non è quello di rientrare in tempi brevi del denaro, ma piuttosto fare in modo che Washington continui a essere in relativa salute per non deprezzare i titoli di Stato americani, i Treasury e per assorbire l’ingente massa di esportazioni che proviene dal Middle Kingdom. Non è un mistero, infatti, che una delle principali armi economiche adottate dalla Repubblica Popolare nell’ultimo decennio sia stata quella di tenere costantemente lo yuan deprezzato rispetto al dollaro, per favorire l’ingresso dei prodotti cinesi nel mercato americano, alimentando la crescita del gigante asiatico.

Quello che però forse non era stato previsto è il crescente appeal che la cultura a stelle e strisce esercita sulla popolazione del Dragone, che ha iniziato a consumare sempre più prodotti provenienti dagli Usa, tanto da diventare una voce decisiva nei fatturati di tante aziende. E così l’Economist, alcuni anni fa, ha deciso di iniziare a monitorare la “sinodipendenza” delle imprese americane sviluppando un apposito indice di misurazione. Quali i settori e le aziende più dipendenti? Tanta tecnologia (con Apple in testa, all’11% del fatturato, seguita da Qualcomm, Intel, Ibm, Texas Instruments), largo consumo (Procter & Gamble, Philip Morris, Johnson & Johnson, Coca-Cola), ristorazione (Yum! Brands) e due colossi del calibro di GE e 3M, tutti oltre la soglia del 2% del fatturato.

Se in valore assoluto i consumi cinesi sono decisivi per i destini di molti, in valore relativo rappresentano una voce ancora limitata rispetto al Prodotto interno lordo di Pechino, circa un terzo del Pil a fronte dei due terzi che osserviamo negli stessi Stati Uniti e nell’Europa Occidentale. Il motivo è da ricercare nell’elevato tasso di risparmio delle famiglie urbanizzate e in particolare – secondo una dinamica che non ha precedenti – tra gli anziani, ma soprattutto tra i giovani. Il ciclo tradizionale del risparmio segue infatti un andamento a campana lungo la linea della vita di una persona: vuol dire che si risparmia di più in età adulta, quando il reddito è presumibilmente più alto. In Cina, invece, uno studio recente condotto da Mark Rosenzweig e Junsen Zhang (rispettivamente Università di Yale e Università Cinese di Hong Kong) ha dimostrato esattamente il contrario: il risparmio è molto elevato in età giovanile, si riduce nella mezza età e risale leggermente durante l’anzianità. Il controllo delle nascite ha un ruolo in questa situazione, ma di riflesso. Una riduzione esogena della prole aumenta i trasferimenti finanziari dell’adulto verso il familiare anziano, il quale in gioventù risparmia sapendo di poter contare su meno figli e su un welfare a dir poco discutibile.

Ma quello che è stato indicato come il motivo decisivo è probabilmente il fenomeno più interessante ai nostri occhi: i giovani cinesi, per usare un termine caro a uno scomparso ministro, sono dei “bamboccioni”. I costi per le abitazioni sono molto elevati e così la metà dei trentenni cinesi vive in famiglia o con almeno un genitore. Le chance di convivere con la famiglia sono maggiori se il figlio è unico, e ciò permette di accumulare capitale. Mentre progressivamente aumentano i consumi, le giovani formiche cinesi invidiano le cicale americane per cultura e lifestyle, ma forse non sanno che ne sostengono le spese. Tra gli alti consumi e un costosissimo sistema universitario i giovani Usa sono in gran parte indebitati verso banche e istituzioni finanziare, a cui non sono stati lesinati in epoca recente aiuti di Stato. Lo stesso Stato in debito con la Cina.

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