Domani si decide la forma che vogliamo dare alla Terza Repubblica. L’aspra contesa per le primarie del Centrosinistra ne ha appena sancito la nascita. Probabile che l’esito delle primarie ne segni anche il destino.  Un po’ come già accaduto per le elezioni vinte da Berlusconi nel ‘94 che hanno segnato la forma della Seconda Repubblica con il suo tragico epilogo a cui siamo ormai tutti tristemente familiari.

Ora, prima di procedere, è doverosa una precisazione, ciò che nel gergo degli startuppers verrebbe definito un disclaimer di conflitto d’interessi. Com’è facile desumere dai miei post in questo blog, sono un sostenitore convinto di Matteo Renzi. Anzi, nelle ultime settimane sono stato coinvolto (travolto sarebbe forse la parola più appropriata) dalla sua campagna. Benché lo faccia a titolo totalmente volontario e gratuito, è chiaro che le opinioni che seguono riflettono profondamente questo mio impegno.

Dunque, ormai è chiaro a molti che la sfida che si decide domani – con eventuale (e assai probabile) ballottaggio tra una settimana – ha una portata che va ben oltre i confini tradizionali del Centrosinistra fino ad abbracciare il destino dell’intero Paese. Lo testimoniano, letteralmente, milioni di cittadini che si sono mesi in fila per registrarsi e che andranno a votare . È una novità dirompente che ha già avuto ripercussioni profonde sull’intero arco politico, mandando in frantumi il centrodestra, forse presto anche Grillo. Si è detto, usando una metafora metalmeccanica, che la scelta è tra la rottamazione e l’usato sicuro. Ci può stare, ma attenzione a pensare che il quesito riguardi solo uno schieramento politico. Interessa l’intero paese, in tutte le sue articolazioni sociali, economiche e civili.

In realtà, se proprio dobbiamo restare alle metafore automobilistiche, con tutto il rispetto per Bersani, più che all’usato sicuro, mi viene da pensare all’usato revisionato. C’è un intero pezzo di paese che vive nell’illusione che i problemi che affliggono il paese, tra cui ora la più pesante crisi del dopoguerra, possano essere risolti dando un’aggiustata ai modelli del passato. È l’idea che basta una revisione e il motore riparte.

Il problema è che il motore ha smesso di andare da tempo. Il modello su cui si è costruito questo paese nel dopoguerra ha servito un lungo ciclo di benessere, prima con una fase di espansione (la Prima Repubblica) e poi con una di declino (la Seconda). Quel motore ora è completamente logoro. Ha smesso perché il progetto originario ha manifestato tutti i suoi limiti, ha esaurito il suo scopo. L’automobile è l’icona dello sviluppo economico e civile del secolo trascorso. Ma non è con le ricette del XX secolo che rifacciamo l’Italia. Ecco, tempo di dare un alt alle metafore automobilistiche. Tempo di cambiare icone.

“L’Italia può essere la più bella startup al mondo” ha dichiarato Matteo Renzi più volte, tra cui ieri in occasione dell’inaugurazione di NanaBianca, un nuovo incubatore di startup, nato a Firenze da alcune delle menti più brillanti di questo settore emergente. Ma ha senso ragionare di un paese come di una startup? Può essere l’icona su cui costruiamo il modello di sviluppo civile ed economico del futuro?

Molti detrattori diranno che Matteo Renzi incarna alla perfezione l’immagine dello startupper, resa popolare da film e media, quella del giovane ambizioso che punta a scardinare il sistema e ad imporsi come dominus, un po’ alla Mark Zuckerberg o Steve Jobs. In questo c’è senz’altro del vero. In ogni startupper, dal più assetato di successo finanziario a quello più impegnato socialmente, si cela una potente ambizione, forse la più grande che esista: la speranza che con le proprie azioni si possa imprimere cambiamenti radicali al mondo in cui si vive. È una speranza fatta di passione, ispirazione e determinazione, senza la quale nessuna startup andrebbe oltre qualche mese di vita.

Ma c’è qualcosa di più profondo. Si tende a pensare che le startup rappresentino una fase nella vita delle aziende, quasi una specie di modello organizzativo. In un certo senso è vero. Altri sarebbero anche più restrittivi. Le startup sono imprese di capitali ad alto potenziale di espansione. Vero anche questo. Le startup che conosciamo nascono in contesti che combinano disponibilità di capitale di rischio, alta competizione, intraprendenza imprenditoriale, talento e dosi massicce di competenze ultra-qualificate.

Ma non basta. Dietro un ecosistema vibrante di startup, vi è in primo luogo un sistema di valori, di regole, di impegno. Alla base vi è una cultura – e ripeto cultura – che si fonda in primo luogo sulla centralità della persona (vuoi che sia un consumatore, un’impresa o un cittadino) ed è incarnata da un sistema di principi etici inderogabili: impegno, responsabilità, merito, condivisione, innovazione. Sono questi principi che fanno prosperare la Silicon Valley e tutti gli hot beds di idee che stanno nascendo nel mondo avanzato (e ora anche in numerose potenze emergenti).

In secondo luogo, la cultura startup mette al centro la creazione di “valore”. E qui, attenzione, per valore non parliamo solo di soldi. Il valore può essere anche il benessere dei cittadini, la loro salute, la loro educazione, la lotta alle diseguaglianze, l’emarginazione. Valore è tutto ciò il cui impatto è misurabile. Non perché gli startuppers siano dei data freaks ossessionati dai numeri, ma perché solo sulle dichiarazioni che sono chiare e confutabili (Popper avrebbe detto: falsificabili) è possibile rendere conto delle azioni nostre e degli altri, ed eventualmente cambiarle. La rivoluzione di Internet ci ha inondato di dati. Servono a poco se non li usiamo a questo scopo. Ciò vale per le imprese più innovative, ma vale anche di più per la politica. In realtà è una sfida che interessa l’intera società in cui viviamo. Non è facile, siamo solo agli inizi, ma solo se riusciremo ad affrontare questa sfida, con tutte le difficoltà e gli inciampi del caso, potremmo veramente dare un futuro al nostro Paese.

Personalmente, sono convinto che, se questa terza rivoluzione industriale (e civile) riuscirà a farsi largo anche nei settori più tradizionali del Paese, l’intero sistema economico e civile dell’Italia potrà essere ridisegnato in meno di 10 anni, consegnando a noi e alle generazioni che seguono un’Italia più giusta, più ricca, più sostenibile e capace di riaffermare quel ruolo di leadership che le spetta in Europa.

L’Italia ha tutte le risorse che occorrono. Abbiamo talenti straordinari, un patrimonio umano (culturale, civile e industriale) che ispira ancora ammirazione nel mondo. Ma spetta a tutti noi assumerci la responsabilità del cambiamento.

Per me la scelta è semplice. Nell’attuale panorama politico, Matteo Renzi è l’unico politico che abbia compreso la sfida e che, da vero startupper, abbia la passione, l’ispirazione e la determinazione necessari ad affrontare la sfida. Lo ha provato per come si è battuto per primarie vere nel Partito Democratico, esponendosi ad un fuoco incessante di accuse e mistificazioni da parte degli avversari, mai sottraendosi al contraddittorio, prendendo tutto quello che gli tiravano addosso, scusandosi se era necessario. Questo paese non si cambia con i compromessi. Occorre una generazione dotata di questa tempra per affrontare l’attrito di resistenze che impediscono il cambiamento. Matteo è anche l’unico che incarni quella cultura startup, fatta di azione, di responsabilità, ma anche di ascolto. Ne ho avuto prova, in prima persona, aiutandolo a costituire il comitato Rivoluzione Digitale Adesso!. Un’esperienza che, per la passione, l’energia e la partecipazione (talvolta anche la confusione) dimostrati, non solo da Matteo ma da tutti coloro che lo sostengono, è la cosa più vicina ad una startup che abbia mai visto al di fuori di un’azienda.

Domani si decide la forma che vogliamo dare alla Terza Repubblica. Possiamo decidere di lasciarla com’è, una vecchia auto in attesa di essere rottamata. Oppure, domani, se vogliamo, si fa dell’Italia la più bella startup del mondo.

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