All’inizio (1215, Magna Charta Libertatum) le prerogative del Parlamento non erano un odioso privilegio. I parlamentari controllavano il potere in nome della legalità e le guarentigie li proteggevano dalle prepotenze del Re. Poi il potere si è mangiato la politica: Parlamento e governo sono diventati espressione di una sola casta. Dove più, dove meno, il controllo di legalità (pubblica, quella che riguarda la gestione del potere) è stato abbandonato dal Parlamento; e, negli Stati democratici e in particolare nell’Italia del dopoguerra, è finito nelle mani della Magistratura. Il conflitto, da intra-specifico che era stato, è diventato extra-specifico (Lorenz, Il cosiddetto male), politica contro Giustizia.

Naturalmente, a questo punto, le guarentigie politiche non avevano più senso: il potere assoluto e i suoi irresistibili abusi erano spariti. Restava, per tutti, l’obbligo di rispettare la legge: l’accertamento e la sanzione di comportamenti illegali commessi da politici erano un fatto tecnico, incongruente con le guarentigie di un tempo. Certo, errori nell’applicazione della legge e abusi di potere commessi da magistrati corrotti restavano possibili. Ma per i politici, come per chiunque altro, sarebbero state sufficienti le garanzie del sistema giudiziario: l’indipendenza del giudice, il principio del contraddittorio, i tre gradi di giudizio. È successo però, in particolare nel nostro paese, che il potere ha corrotto la politica. Il suo tasso di criminalità è divenuto elevatissimo, superiore percentualmente a quello riscontrabile in una degradata periferia urbana. Ne è derivato un conflitto con il controllo di legalità. E le guarentigie di una volta sono state mantenute al solo scopo di garantire ai politici l’impunità. Solo che, a un certo punto, hanno dovuto ridimensionarsi: con Mani Pulite era diventato evidente il contrasto sfacciato tra l’enorme quantità di reati da loro commessi e il sistema di impunità di cui godevano. L’autorizzazione a procedere fu abolita; ma rimasero in vita le altre autorizzazioni, in particolare quelle a intercettare, all’uso delle intercettazioni indirette e all’arresto che, pur non impedendo il processo, ne rendevano difficile lo svolgimento.

Restava però la delegittimazione propria del processo penale: reati e fatti eticamente e politicamente disdicevoli erano conosciuti dall’opinione pubblica; e la gestione del potere ne era comunque pregiudicata. Cominciò quindi l’epoca delle leggi ad personam, necessarie non tanto per impedire la fisiologica conseguenza di una sentenza di condanna quanto per evitare che i cittadini si rendessero conto della criminale gestione del potere. Queste leggi, che introducevano l’impunità generale per i vertici della politica, furono ritenute legittime dalla Presidenza della Repubblica e approvate dal Parlamento. Solo la Corte costituzionale evitò il perpetuarsi di un ritorno all’inaccettabile concetto: la persona del Re è sacra e inviolabile. Oggi questa sacralità è invocata dal Presidente Napolitano. Dimentico delle caratteristiche essenziali del potere legittimo: la sottomissione alla legge e la trasparenza della gestione del potere sotto il profilo della legalità, dell’etica e della correttezza politica e istituzionale. Nascondere ai cittadini le proprie azioni è sintomo di cattiva coscienza. E le istituzioni non possono essere servite da chi ha la necessità di nasconderle.

Il Fatto Quotidiano, 3 agosto 2012
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