Iniziano le vacanze estive ed uno dei riti più coltivati – ne parlava alcuni giorni fa l’inserto romano del “Corriere della sera” a proposito di un piccolo Labrador abbandonato dal padrone nel bagagliaio della macchina a 50 gradi di temperatura – è quello del maltrattamento degli animali domestici, del loro abbandono nella stessa autostrada che conduce verso la meta vacanziera.

Sarebbe necessario che tutti tenessero presente questo straordinario passaggio dei Parerga e Paralipomena di Schopenhauer: “Questa dedizione totale al presente, propria degli animali, è la precipua causa del piacere che danno gli animali domestici. Essi sono il presente personificato e ci rendono accessibile il valore di ogni ora di pace e di tranquillità, mentre noi con il nostro pensiero il più delle volte andiamo al di là di essa e la lasciamo passare inavvertita. Ma questa proprietà degli animali, di essere soddisfatti più di noi della pura esistenza, viene abusata e spesso così sfruttata dall’egoismo e dalla crudeltà dell’uomo che questi non lascia più loro nulla, nulla al di fuori del puro esistere: l’uccello, che è organizzato per traversare a volo mezzo il mondo, è da noi chiuso in un breve spazio, dove esso muore lentamente e grida spasimando verso la libertà (…), ed il cane, il suo intelligente amico, è da lui legato alla catena! Io non posso mai vedere questo senza un’intima pietà per il cane e una profonda indignazione per il suo padrone”.

Una prospettiva condivisa da Pietro Martinetti (1872-1943) che insegnò filosofia teoretica all’Università di Milano e scrisse La psiche degli animali, improntata alla pietà che costituisce l’autentico simbolo dell’unione tra l’uomo, la natura e gli animali, in larga sintonia con le tesi di Pitagora, Plutarco, Gassendi, Campanella, Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro e Michel de Montaigne.

Mi sento molto vicino a certe posizioni perché, per più di diciassette anni nella mia esperienza vissuta, ho avuto un rapporto con due gattine, Carlotta e Camilla, da cui ho imparato molto. Parto dal presupposto che i gatti non siano da considerarsi degli automi, come presumeva, invece, Cartesio. Il grande filosofo francese riteneva che gli animali non umani come i gatti fossero il frutto di complicati meccanismi creati da Dio. I gatti non sarebbero affetti da stati mentali come il dolore, piacere, desiderio o convinzioni più delle sveglie e dei termostati. Una tesi aberrante che viene smentita in maniera clamorosa  nel bel libro curato da Steven D. Hales, Il gatto e la filosofia, uscito la scorsa estate.

Come può un filosofo, un ricercatore come Cartesio arrivare a questa forma esasperata di intellettualismo per la quale in linea di principio non viene riconosciuto il livello della complessità mentale dei gatti? Paradosso per paradosso, mi sento più vicino alla formula di Gary Steiner, professore di filosofia alla Bucknell Univeristy: “Quello che ho imparato da un gatto non sono riuscito ad apprenderlo da alcun filosofo”.

Bisogna distruggere alla radice la mitologia implicita nella tradizione filosofica occidentale, secondo cui lo statuto spirituale di un certo tipo di ente è in larga misura determinabile dalle capacità cognitive dell’ente stesso.

Presumere che la sofferenza degli uomini abbia più valore di quella degli animali non umani, o ritenere che gli animali abbiano meno da perdere di un essere umano quando muoiono, in quanto mancherebbe loro il senso e la direzione della propria vita sul lungo periodo (il senso del futuro), è un pregiudizio intellettuale da ricusare. Chiunque abbia avuto, nel proprio vissuto, un rapporto con degli animali domestici, come è accaduto per me con Carlotta e Camilla, sa di non poter condividere queste forme radicali di antropocentrismo.

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