Ancora una volta, i social issues, le questioni etiche, morali. Ancora una volta, la “guerra culturale” tra l’America progressista sui valori e quella conservatrice. In un’elezione presidenziale che sembrava doversi decidere sull’economia, sulla capacità di questa amministrazione di creare posti di lavoro, irrompe ancora una volta (come già nel 2004) la questione dei matrimoni gay. Interrogato al programma di NBC Meet the Press, il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden ha detto di sentirsi “assolutamente a proprio agio” con l’idea dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, e di essere “particolarmente rincuorato” per il fatto che una crescente maggioranza di americani sembra accettarli.

Da quel momento nella stampa e nella politica di Washington si è scatenata una gara di illazioni. Biden parlava a titolo personale o per tutta l’amministrazione? La sua intervista rivela un’evoluzione nella stessa posizione di Barack Obama (che è sempre stato favorevole alle unioni civili ma non ai matrimoni omosessuali, anche se recentemente ha detto che la sua opinione “è in evoluzione”). A complicare ulteriormente la faccenda è venuta, lunedì, un’altra intervista, quella al segretario all’educazione Arne Duncan. Chiamato a MSNBC per spiegare come abbassare i tassi di interessi sui prestiti federali agli studenti, Duncan si è visto porre la stessa domanda: “E’ favorevole ai matrimoni gay?”, cui ha risposto, semplicemente: “Sì, lo sono”.

A poco sono valsi, da allora, gli sforzi di tutto il team più vicino a Barack Obama per limitare le ricadute politiche della questione. David Axelrod, David Plouffe, Jay Carney hanno in queste ore più volte ripetuto che le prese di posizione di alti gradi dell’amministrazione rappresentano in pieno la posizione di Obama, che “ha sempre affermato che le coppie gay in una relazione esclusiva devono avere accesso agli stessi diritti delle coppie eterosessuali”. Lo stesso Joe Biden, accortosi della possibile tempesta politica, ha cercato di attenuare le proprie affermazioni. “Io sono solo il vicepresidente – ha detto -, la strategia finale la decide il presidente”. I tentativi di “smontare” il caso politico non sono però serviti. Oltre alle prevedibili accuse dei repubblicani contro un presidente “incapace di sentire ciò che la maggioranza degli americani sente”, sono arrivate immediate anche le reazioni della comunità gay e lesbica, che chiede a Obama un gesto di chiarezza. Secondo Joe Solmonese, presidente della Human Rights Campaign, “non c’è alcun dubbio nella mia mente che il presidente condivida i valori di alti membri della sua amministrazione. E’ quindi tempo che si dichiari anch’esso a favore dell’eguaglianza matrimoniale”.

Questa “dichiarazione” è però, per i consiglieri di Obama, politicamente rischiosissima. Da un lato c’è infatti la questione dell’appoggio elettorale della comunità omosessuale USA, che pareva ormai assicurato, dopo la decisione dell’amministrazione di abolire la Don’t Ask, Don’t Tell e di rinunciare alla difesa nei tribunali del Defense of Marriage Act (la norma che definisce il matrimonio come esclusiva unione tra un uomo e una donna). L’impressione di un Obama più tentennante sulla questione dei diritti gay potrebbe però costare al presidente una fetta di voti omosessuali, il prossimo novembre, oltre a una pericolosa riduzione nei finanziamenti elettorali (secondo stime della campagna democratica, stanno per arrivare a sostegno di Obama almeno 100 milioni di dollari di finanziamenti “liberal”). Di più. Mostrandosi insincero sulla questione omosessuale, Obama rischia di perdere l’appoggio degli studenti di college americani e della fascia generazionale tra i 18 e i 35 anni, che tutti i sondaggi mostrano essere, a larga maggioranza, a favore dei matrimoni gay.

C’è però il rovescio della medaglia. L’appoggio incondizionato ai diritti gay è un viatico quasi sicuro alla perdita di voti moderati. Nessuno, nel team di Obama, vuole ripetere l’esperienza del 2004, quando nel giorno del voto su Bush e Kerry i repubblicani riuscirono a richiamare alle urne, in 11 stati, migliaia di conservatori, attirati da una serie di referendum contro i matrimoni gay. Al momento sono nove gli Swing States che oscillano nelle preferenze di voto tra democratici e repubblicani (Colorado, Florida, Iowa, New Hampshire, Nevada, Ohio, Pennsylvania, Virginia, Wisconsin). Secondo le stime dei democratici, in almeno tre di questi – Virginia, North Carolina e Colorado – la questione dei matrimoni gay potrebbe rivelarsi decisiva. In North Carolina si vota oggi su un emendamento alla costituzione dello Stato che dovrebbe bandire in modo definitivo i matrimoni omosessuali. In Colorado, i deputati devono invece decidere se far passare le unioni civili. Obama rischia quindi di trovarsi coinvolto in battaglie locali, trasmettendo a livello nazionale il senso di una leadership indecisa e traballante. Il consiglio migliore, a Obama, l’ha dato in queste ore Christopher Cooper, un professore della Western Carolina University: “Meno si parla di matrimoni gay, in North Carolina e negli altri Stati, meglio è per Obama”. Un auspicio che, al momento, non pare facile da realizzare.

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