“Sarkozy non è morto”. Titolavano così i giornali che nel febbraio 2012 annunciavano l’arrivo in campagna elettorale del presidente uscente. Sono passati due mesi, e quello che sembrava un candidato spacciato oggi accumula consensi e ritorni di fiamma, e in alcuni sondaggi figura vincitore almeno al primo turno delle elezioni (22 aprile 2012, ndr). Che cos’è successo in questi sessanta giorni, ma soprattutto, cosa la sinistra rischia ancora di sottovalutare?

Nicolas Sarkozy inizia la sua campagna elettorale evocando il ruolo da comandante che non abbandona la nave, il grande condottiero che non salva il paese, ma semplicemente decide di non lasciarlo alla deriva nel momento del pericolo. Il candidato presidente ha il volto contrito a ogni intervento tv, dopo ogni accusa di non aver fatto abbastanza: «È un momento durissimo, abbiamo fatto il possibile». Con l’aria da padre responsabile che tira la cinghia a causa della crisi ma prima dà da mangiare ai figli, Sarkò fa dimenticare errori e passi falsi. È il perdente che si affaccia sulla scena di una politica che sta al suo gioco.

A sinistra, invece, tra le file del Partito Socialista, si respira un ottimismo nemmeno troppo cauto. Militanti tradizionalmente votati al pessimismo ostentano in pubblico una tranquillità e una positività da far venire la pelle d’oca a quei tanti che rammentano la sera del famoso 21 aprile 2002. «Me lo ricordo come fosse ieri». Quando si parla di politica con un francese si cade prima o poi su questo evento traumatico, e le parole sono sempre le stesse.

«Ero al cinema, sono uscita perché gli amici mi tempestavano di telefonate. Eravamo sconvolti». Oppure: «Ero in macchina, c’era anche mia sorella, tornavamo a casa da una gita. Poi abbiamo acceso la radio: non potevo crederci». I racconti sembrano quelli dei sopravvissuti; a volte fanno quasi sorridere. Il 21 aprile del 2002 i cittadini francesi scoprirono che Lionel Jospin, allora candidato del Partito Socialista, non aveva passato il primo turno delle elezioni presidenziali e che al suo posto al secondo turno ci sarebbe stato Jean-Marie Le Pen, il leader del partito di estrema destra Front National. Ed è con il volto di Jospin, da “lottatore di boxe suonato dalle botte”, che Marc Abélès, noto antropologo francese, apre il suo libro “L’échec en politique”, saggio sul fallimento in politica, quello strano fenomeno di cui nessuno vuole parlare, ma che esiste e smuove voti ed orientamenti politici. Jospin è un fallito, colui che ha permesso che l’impossibile succedesse e che ha inflitto un’umiliazione storica alla sinistra, un fantasma che perseguita ancora oggi i suoi militanti.

Ma perché andare a ripescare un libro di un antropologo che analizza il fallimento in politica può servirci a capire cosa ne sarà delle elezioni francesi del 2012? Banalmente diremmo “Perché la Storia insegna”, ma soprattutto perché c’è un aspetto della sfera politica che dimentichiamo sempre o forse – semplicemente – sottovalutiamo: il fallimento, appunto. «La politica è un mestiere da prendere sul serio – sottolinea l’antropologo, – in quanto è un “gioco” di vita e di morte che non conosce vie di mezzo». Il mondo politico è violento, come ci ricorda Abélès, e a evidenziarlo è il linguaggio stesso che viene utilizzato: diciamo, per esempio, che Dominique Strauss-Khan è “politicamente morto” per dire che non può più candidarsi. Morto, finito, suicidio, sono tutti termini che ci servono per indicare condizioni e situazioni dei politici contemporanei. Per fare un esempio, all’Assemblée Nationale francese c’è una parte destinata agli ex deputati che vogliono seguire le sedute che, in modo informale, si chiama “le cimitière”, il cimitero.

Alla Francia, a volte, piacciono i perdenti e a ricordarcelo è il libro di Abélès. Mitterrand è stato il perdente per eccellenza nella storia della nazione, almeno agli inizi degli anni ‘70. Amava ripetere: «Sono l’uomo più odiato di Francia, questo mi dà l’opportunità di diventare un giorno il più amato», ed è così che preparava la sua ascesa al potere. È proprio nel fallimento che il presidente della “force tranquille” trovò il favore del pubblico. Il secondo perdente per eccellenza citato da Abélès è invece Jacques Chirac durante la campagna elettorale del 1995, una vera e propria traversata del deserto. L’autore la paragona ai fenomeni dei riti di passaggio delle tribù indigene segnate da tre fasi: separazione, margine e aggregazione. «Ci ricorda – afferma l’antropologo – la struttura dei racconti studiata da Vladimir Propp: nel momento di crisi, l’eroe si mette in viaggio per ottenere ciò che vuole». È la strategia della vittimizzazione che ha permesso a Chirac di trasformare la campagna elettorale in una battaglia di piccoli contro  grandi, di perdenti contro vincenti antipatici già autoproclamatisi vincitori. Chirac, uomo politico solo contro chi pensava di avere il successo in tasca, seppe conquistare amicizia e favori dei cittadini francesi, stravolgendo pronostici e prese di posizione. Ed è il punto più interessante sviluppato da Marc Abélès: «In politica i veri perdenti non sono quelli che pensiamo e la Francia, in passato, ha mostrato di essere capace di appassionarsi a chi sembra irrimediabilmente destinato alla sconfitta».

E se la storia si ripetesse? Non bisogna dimenticare che il 21 aprile del 2002 a far perdere la sinistra al primo turno fu anche un elevatissimo tasso di astensione. La percentuale di  astensionisti, questo popolo tanto corteggiato in campagna, per queste elezioni presidenziali è stimata al 30%. E se a Sarkozy tutto questo dimenticare e scaricare il barile, permettesse di riuscire la sua personale traversata del deserto?

di Martina Castigliani

parigi@ilfattoquotidiano.it

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