Dall’epilogo del libro Il caso Genchi. Storia di un uomo in balia dello Stato, di Edoardo Montolli, Aliberti editore, 2009.

Era la mattina del 20 luglio del 1992, il giorno dopo la strage di via D’Amelio. Il commissario capo Gioacchino Genchi non aveva chiuso occhio. Parisi l’aveva convocato in una notte convulsa per trasferire con un blitz una miriade di mafiosi dall’Ucciardone a Pianosa. Un viavai di rinvii e ripensamenti, perché mancava una legge per farlo, fino a che il ministro Martelli aveva preso carta, penna e timbro, e lo aveva autorizzato.

E quella mattina erano già tre ore che brigava. Incise negli occhi le immagini dei corpi dilaniati degli agenti che si staccavano dalle pareti del palazzo, nel naso l’odore del sangue, nelle orecchie gli strilli di donne e bambini. Stremato, come tutti i colleghi, guardava il cortile di Pianosa riempirsi di uomini. Gli elicotteri li sputavano fuori uno a uno dal portellone centrale, davanti ai mitra spianati e alla polvere che si alzava a vampate. I poliziotti gridavano, avevano perso cinque dei loro devastati dall’esplosivo.

Avevano perso un magistrato che non avrebbero trovato più. Sudavano odio e rabbia. E i mafiosi, quando erano andati a prenderli, li avevano trovati a bere champagne nelle celle. E ora erano lì, in fila indiana, spiazzati e spaventati. Incurvati come pecore obbedienti. Senza bottiglie pregiate e isolati dal mondo. Pronti a finire in un buco schifoso e umido il resto dei loro giorni. Ammanettati stretti, le braccia dietro la schiena, i polsi viola, in catene, un sole torrido che avrebbe ucciso i cavalli, dovevano filare di corsa alle celle.

Le pale dei Mangusta fracassavano i timpani. Chi si lamentava, chi perdeva lacrime. Finché uno, piuttosto vecchio e malconcio, cadde per terra, afflosciato dalla stanchezza. «Dottore, è Michele Greco, u Papa» fece segno un agente, forse all’improvviso impaurito, forse trattenendo un ghigno. Non si sa. Perché l’uomo dei telefoni non lo guardò. Si avvicinò al vecchio. Ordinò di togliergli le manette e lo staccò dal gruppo. Lo trascinò in spalla fino a un muretto, adagiandolo in un angolo, sopra a un rialzo, riparato da un cono d’ombra. E gli diede dell’acqua.

Michele Greco ringraziò. Fece un sorso, poi ne fece ancora. E ancora.
Respirò a pieni polmoni. Si riprese. E tentò di stringergli la mano.
Ma l’altro stavolta si tirò indietro.

E quando il boss chiese di sapere almeno come si chiamasse, sostiene Genchi che la risposta probabilmente gli strappò un sorriso amaro. Io credo invece che gli avesse strappato il rispetto che mai Michele Greco aveva nutrito per i poliziotti, i finanzieri, i carabinieri, i giudici, i politici che sempre l’avevano ossequiato come don Michele u Papa. Perché fu a quel punto che, sfiorandosi la divisa, l’uomo dei telefoni gliela indicò: «Noi non abbiamo un nome. Siamo lo Stato».

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