Arundhati Roy

Quanto può essere ritenuto pericoloso un intellettuale nel momento in cui esprime opinioni politiche controcorrente? Accade in India, patria della scrittrice Arundhati Roy, nota in Italia per il romanzo “Il Dio delle piccole cose” (Guanda 1997), vincitore del Booker Prize, uno dei maggiori riconoscimenti mondiali per la letteratura. La sua colpa è quella di aver sostenuto apertamente che la regione del Kashmir, nel nord del Paese, ha diritto all’autonomia.

Indiana, 48 anni, originaria del Kerala, la Roy viene ormai considerata un nemico pubblico dalle autorità, alla stregua di un terrorista qualsiasi, e bersagliata dai nazionalisti hindu proprio a causa della posizione sostenuta a proposito della regione contesa.

In India, che controlla il Kashmir con poteri speciali assegnati all’esercito fin dal 1990, un’affermazione del genere rappresenta un’eresia. Alle parole della Roy, non nuova al sostegno di cause umanitarie o legate alla difesa dell’ambiente, è seguita una presa di posizione ufficiale del governo di Delhi. Le autorità federali hanno minacciato di aprire un procedimento giudiziario con l’accusa di sedizione.

Alle minacce legali sono seguiti fatti piuttosto inquietanti. L’abitazione privata della Roy nella capitale Delhi è stata presa d’assedio dai militanti del BJP, il partito nazionalista hindu, da sempre avverso all’autonomia del Kashmir. Circa 150 donne hanno manifestato arrivando fino al giardino di casa, scandendo slogan come: “Ripensaci, oppure vattene dall’India”.

Arundhati Roy ha usato Internet per comunicare con i suoi sostenitori, descrivendo in questo modo la situazione: “Una folla mi è piombata davanti casa verso le 11 di mattina (di domenica scorsa, ndr). Hanno sfondato il cancello e danneggiato la proprietà. Hanno urlato slogan contro di me e minacciato di darmi una lezione”.

Il Kashmir, incuneato all’estremo nord del subcontinente indiano, è una regione che i britannici spartirono convenzionalmente in tre nel 1947, assegnandone una parte al Pakistan, una parte alla Cina, e il restante terzo a Delhi. Mentre gli indiani lo considerano da sempre parte integrante del loro territorio, i kashmiri combattono da anni una guerra silenziosa contro le autorità federali, mescolando rivendicazioni separatiste e estremismo islamico, sostenuto neppure troppo velatamente dal governo di Karachi. Il loro leader storico è il carismatico Syed Ali Shah Geelani, definito “il piccolo ayatollah”. Ha trascorso anni in prigione e forse anche per questo esercita un grande fascino sui sostenitori della causa indipendentista.

Lo scontro, mai sopito, in Kashmir, ha fatto più di un centinaio di vittime solo negli ultimi 4 mesi. Lo scorso giugno, un ragazzo di 17 anni è stato ucciso dopo una sassaiola per le strade di Srinagar, la capitale. Da questo episodio è partita una catena di violenza tra i separatisti da un lato, esercito e polizia indiani dall’altro. A settembre, la regione si è infiammata ulteriormente con il pretesto del rogo dimostrativo del Corano negli Usa da parte del reverendo Terry Jones.

Anche in seguito agli ultimi episodi, Delhi continua ad avere i nervi tesi. L’argomento Kashmir deve rimanere fuori persino dal dibattito pubblico.

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