Scusate, ma io Brancher lo capisco. Provate a mettervi nei suoi panni (non nel suo conto in banca: sarebbe impossibile). Fino a una settimana fa era uno dei tanti ex galeotti miracolati dalle depenalizzazioni del padrone-mandante. Era deputato e sottosegretario alle Riforme per il Federalismo e già la cosa pareva eccessiva financo a lui. Attendeva trepidante l’inizio del nuovo processo per le stecche di Fiorani, dov’è imputato per ricettazione e appropriazione indebita. A un certo punto un’auto blu lo preleva per condurlo al Quirinale dov’è atteso dal mandante e da Napolitano per giurare come ministro per l’Attuazione del Federalismo. Pensa a uno scherzo di quel burlone del mandante, anche perché di ministro del Federalismo ce n’è già uno, l’amico Bossi.

Invece è tutto vero. La penna del Presidente Firmatutto (la solita, ormai esausta) è lì pronta all’ennesima sigla prêt-à-porter. Lo spumantino fresco per il brindisi pure. Il capo dello Stato sorride alle telecamere mentre lui giura sulla Costituzione (quella che all’articolo 54 recita, spiritosa: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”). Gli allunga temerario la mano. Si trattiene per la foto di gruppo. Insomma tutto bene. Sono lontani i tempi in cui i presidenti rimandavano i ministri per indegnità o inopportunità, come fecero Scalfaro con Previti e Ciampi con Maroni. L’indomani, vigilia dell’udienza, Brancher si mette nella scia del mandante e fa esattamente come lui: invoca il legittimo impedimento anche se non ha una mazza da fare. È una legge dello Stato, firmata in men che non si dica dalla penna più veloce del West e riservata al premier e ai ministri, dunque anche a lui. Serve appunto ad autocertificare impedimenti inesistenti, perché per quelli veri c’è già il Codice di procedura penale, e a costringere ai giudici a rinviare tutto fino a 18 mesi senza fiatare. Il premier l’ha già usata tre volte (una per ogni processo) e nessuno, men che meno il capo dello Stato, ha obiettato alcunché. Invece, per il povero Brancher, si scatena il putiferio.

Napolitano che l’ha nominato fa sapere che non può avvalersi della legge che lui stesso ha promulgato, perché, essendo ministro senza portafoglio, non ha una mazza da fare. Ma va? E allora perché l’ha nominato ministro senza portafoglio? E perché ha promulgato una legge che regala 18 mesi di legittimo impedimento (in attesa del lodo Al Fano per l’eterna impunità) anche ai ministri senza portafoglio? Forse che Firmatutto, come uno Scajola qualsiasi, firma le nomine e le leggi a sua insaputa? E perché, per il Quirinale, B. può inventarsi falsi impedimenti a norma di legge e Brancher no? Ieri, sul Fatto, Flores d’Arcais ha evocato l’ombra di Luigi Facta, il premier che il 26 ottobre 1922, due giorni prima della marcia su Roma, rassicurò i soliti allarmisti con il leggendario “Nutro fiducia”.

Mai parallelo fu più appropriato. Peccato che, a parte Il Fatto, nessun giornale abbia mai osato muovere la più timida critica al capo dello Stato. Le cronache del Quirinale, perlopiù affidate a corazzieri di complemento, sono scritte in  quirinalese, un idioma che ha poco a che fare con l’italiano:  i “mòniti” del “Colle”, solitamente “alti”; e gli “appelli”, perlopiù “accorati”; e la diuturna “moral suasion”, peraltro sconosciuta non solo alla nostra Costituzione, ma pure a tutte le altre; appena  il Presidente proferisce un ohibò, giù titoli sull’“ira” e/o la “rabbia di Napolitano”, regolarmente seguite dall’invito/monito/appello al “dialogo” per le “riforme condivise” e/o per “abbassare i toni” e, ci mancherebbe, a “non tirare il Presidente per la giacchetta” (resta un mistero perché il Presidente, con l’età e la posizione che ha, non possa permettersi una giacca della misura giusta). Se firma leggi vergogna pur potendole respingere, lo fa sempre “con sofferenza” e talvolta addirittura con “espressione corrucciata”. Se alza un sopracciglio, ecco “l’alt”, l’“altolà”, anzi il “gelo del Colle”. Brrr. Ma niente paura: ogni tanto passa un corazziere e lo sbrina.

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