L’intervista: “Io, Sciascia, i selfie e D&G: ma la fotografia non  è arte”

L’intervista: “Io, Sciascia, i selfie e D&G: ma la fotografia non è arte”

di Gabriele Miccichè

Incontro Ferdinando Scianna nel suo studio di Milano pochi giorni dopo aver visto il bel documentario che gli ha dedicato Roberto Andò. Nel film si racconta la sua storia, la genesi delle sue foto, i suoi incontri e si rivela un aspetto umano che aggiunge alle doti di fotografo e giornalista un divertito distacco, un umorismo denso di una bonaria ironia.

Qual è lo stato dell’arte?

Cominciamo col dire che la fotografia non è un’arte. Moravia mi raccontava che quando girava per le bancarelle dell’usato nelle fotografie cercava il soggetto, non la mano dell’autore come per i disegni. Oggi spesso l’ambizione dei fotografi è di essere accolti nei musei, dalle gallerie. E si continueranno a fare belle fotografie. Ma non sarà più come prima. L’ultima volta che ci siamo incontrati con Gianni Berengo Gardin e Sebastião Salgado ci chiedevamo proprio questo: cosa sarà la fotografia tra trent’anni? Si vorranno ancora esprimere le emozioni, la realtà? La fotografia è stato il linguaggio culturale della modernità; e i fotografi erano portatori di una vera e propria necessità politico-culturale di catturare la memoria, un’immagine, in definitiva uno strumento per comprendere il mondo.

Colpa anche delle nuove tecnologie?

No, assolutamente. Del mio archivio ho già scannerizzato 50 mila immagini. Le foto degli ultimi anni sono già in digitale. Ho imparato a usare il computer, ho trovato un metodo di stampa ai pigmenti di carboni che mi soddisfa molto. Certo è stata una gran fatica. Non è la tecnica a decidere è, ovviamente, l’uso che ne fai. Oggi si fanno i selfie come un tempo si chiedevano gli autografi, ma non sono autoritratti, non ne hanno la consapevolezza. Per parafrasare Magritte non si può dire questa non è una pipa. Se fotografo una pipa sto fotografando questa pipa, quella che in quel momento mi è davanti. Il problema non è come si fotografa, ma perché. E penso che la massima ambizione di una fotografia dovrebbe essere quella di finire in un album di famiglia. Ma purtroppo non si usano più.

I suoi esordi sono ormai una leggenda, quando cominciò era appena ragazzo.

Sono nato in una famiglia modesta. Mio padre era commesso in un grande negozio di Palermo, mia madre era casalinga, la classica donna dei suoi tempi, però possedevamo un giardino di limoni e negli anni Cinquanta ci fu un vero boom. Questo consentì ai miei di ambire a un futuro diverso per i figli. Il mio esito sarebbe stato medico o ingegnere. Quando però mi regalarono una macchinetta fotografica le mie ambizioni cambiarono. Mi iscrissi in Filosofia pensando che, attraverso la fotografia, sarei diventato un antropologo. Mio padre non la prese bene.

Le foto di quegli anni sono bellissime. Lei aveva 16-17 anni, alcune le ho viste nel film di Andò altre nel suo libro Autoritratto di un fotografo e mi è sembrato di essere di fronte a un “occhio assoluto” come per i musicisti esiste l’orecchio assoluto

No, non esiste l’occhio assoluto. Sì la macchina che avevo allora non era professionale, ma mi appassionai subito. Cominciai con i compagni di scuola, poi con quello che mi incuriosiva di Bagheria. Capii che era quello che volevo fare, con mio nonno giravo nei paesi vicini anche in occasione di importanti feste religiose.

E questo comportò la svolta decisiva.

Nel 1963, a vent’anni, feci la mia prima mostra al Circolo Culturale di Bagheria. Leonardo Sciascia la visitò su invito dello storico Vincenzo D’Alessandro, allora giovane assistente all’Università. Quando lo conobbi avevo già fatto delle foto a Palma di Montechiaro dove Danilo Dolci aveva organizzato una specie di “festa della miseria”. Erano immagini indignate, irruente che lo scrittore mandò a Vie nuove, il settimanale del Pci. Mi sento un’invenzione di Sciascia. Da allora cominciò un’amicizia che dura da tutta una vita. Lo dico letteralmente: l’ho sentito vicino retroattivamente e continuo il mio rapporto con lui anche dopo la morte nel 1989. L’unica cosa che non gli perdonerò mai. Poi ci fu Feste religiose in Sicilia… Uscito nel 1965 fu il libro che determinò tutto il mio futuro.

Ma il futuro, allora come oggi, per una persona come Scianna non può svilupparsi in Sicilia. Milano sembra una scelta inevitabile.

Mi trasferii nel 1966. È una città che ho amato fin da subito. Quando cercai casa il proprietario mi disse: “Ma scusi lei l’appartamento a un giovane che è disoccupato e cerca un lavoro che neanche ho capito, l’affitterebbe?”. Mi allontanai sconsolato ma dopo tre minuti tornai. “Mi dica lei allora che dovrei fare?” ed ebbi il mio appartamento. Mi chiedo se oggi in circostanze analoghe un giovane magrebino avrebbe la stessa opportunità, ma allora Milano era così.

Era l’acme del boom italiano e le opportunità non mancavano.

Avevo conosciuto Roberto Leydi a Bagheria. Fu l’inventore con Diego Carpitella della etnomusicologia in Italia e avevano accompagnato Alan Lomax nel suo viaggio in meridione. Era anche inviato dell’Europeo che era forse il settimanale più innovativo del Paese. Mi presero in prova e cominciai la mia carriera professionale. Imparai il mestiere, e devo molto al fotografo Duilio Pallottelli, al direttore Tommaso Giglio. Con lui il giornale raggiunse le 280 mila copie di vendita.

Poi un’altra svolta, quella di fotografo giornalista.

Fu veramente un caso. Dopo l’invasione di Praga ci muovemmo in quattro, due fotografi e due giornalisti. Alla frontiera lasciarono passare solo me che nel passaporto avevo la qualifica di studente. Avevo appuntamento col giornalista l’indomani. A Praga non arrivai mai, fui fermato a ČCeské Budejovice anch’essa invasa da militari e carrarmati. Feci le mie foto e tornai. Al confine non trovai nessuno e il direttore mi disse per telefono che il pezzo serviva subito “Scrivilo tu”. Fu un momento importante. A parte tutto un fotografo era pagato un quinto dei giornalisti.

A quel punto a cavallo dei suoi trent’anni lei era già inserito nella realtà italiana, ma ci fu un altro passo determinante: il trasferimento a Parigi e l’ingresso nella scena internazionale.

Giglio mi mandò a Parigi per l’elezione di Giscard d’Estaing, era il 1974. Dopo mi chiese di restare come inviato. Anche qui ho avuto molto e ho incontrato amici importanti: Gianfranco Moroldo, Maurice Nadeau grande amico di Sciascia che trascorreva un mese ogni anno in città. Cominciai a collaborare con Le monde diplomatique. Fu importante la pubblicazione per Denoel di Les Siciliéns che mi consentì contatti con Romeo Martinez grazie a cui conobbi Henri Cartier Bresson: un padre spirituale e maestro di fotografia ben prima che lo conoscessi personalmente. Quando chiuse L’Europeo mi chiese di entrare alla Magnum.

Un’epoca ancora mitica quella dell’agenzia Magnum fondata da Cartier Bresson, Robert Capa, “Chim” Seymour. Lei fu il primo italiano a farne parte, cosa significò?

Molto, era veramente un topos mitico. Cominciai quando tornai a Milano, e mi sentii libero, indipendente. Non era facile rinunciare all’entrata sicura del giornale, ma era quello che avevo sempre voluto fare.

Cambiò anche il suo modo di fotografare? L’incontro con Dolce & Gabbana che lei gustosamente racconta nel film, altre foto di moda, i viaggi…

In realtà no. Quando lavoravo nei giornali fotografavo di tutto, cronaca rosa e nera, sport, Sanremo, personaggi più o meno noti. Per me la fotografia è sempre reportage. Anche con Marpessa per D&G. Cercai di inserirla nel mio mondo la Sicilia, i bambini, le donne di paese, ambientando e teatralizzando la scena.

Fu una rivoluzione nel campo della fotografia di moda.

Lo dicono in tanti ma in verità mi ispirai al lavoro di Frank Horvat, sebbene lui stesso mi dicesse che i nostri mondi fossero assai diversi. Ma per me la foto è sempre il modo che ho di esprimere il mio universo, la memoria, la vita vissuta, la curiosità. Anche nelle foto di viaggio il metodo è sempre lo stesso. E quando mi emozionai per il viaggio in Yemen con Pasolini, o mi commossi per il servizio sui minatori di Kima, un villaggio boliviano a 3.800 metri sulle Ande, capivo che stavo facendo bene.

Il suo legame con amici, colleghi, scrittori e poeti, la sua antropologia fatta non di grandi temi ma osservando venditori ambulanti, feste di paese, uomini e donne incontrati per caso nasconde un segreto?

Sì, un segreto accessibile a tutti leggendo Pirandello. “Vivere e vedersi vivere” è vero per tutti. Per un fotografo è essenziale.

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