10Wayne, New Jersey, non è Gerusalemme. Ma basta attraversare il parcheggio del Beth Israel Worship Center perché la distanza sembri annullarsi. «Guardate», dice Nayamka Ward, assistente del rabbino Jonathan Cahn, indicando la facciata color sabbia che cattura la luce, «l’architettura riprende quella del Tempio di Gerusalemme. Vogliamo che la nostra comunità si senta lì, a Gerusalemme». Dentro, la sala di culto supera i trecento metri quadri. Bandiere israeliane in ogni angolo, luci di scena, tre maxi schermi che moltiplicano l’immagine del rabbino. In platea, un’America multietnica: latinoamericani, afroamericani, asiatici, ebrei di ritorno, cattolici in cerca di radici bibliche. È New Jersey, ma l’immaginario è mediorientale, scandito da tamburi, shofar e canti in ebraico.

La storia del Beth Israel Worship Center inizia nel 1988, quando Jonathan Cahn — figlio di ebrei newyorkesi laici, convertitosi a Cristo da giovane — riceve l’invito a guidare una piccola comunità di credenti messianici nel nord dello stato. La congregazione nasce con appena trentacinque persone, riunite in un ex Moose Lodge a Lodi. Fu un inizio modesto, ma accompagnato da un episodio che qui è raccontato come segno: un nativo americano, “spinto da Dio”, donò 150 mila dollari per acquistare l’edificio. Nel giro di pochi anni la comunità crebbe fino a diventare una delle più grandi della costa est. Nel 2008 si trasferì a Wayne, in 11 Railroad Avenue, nel complesso oggi noto come Jerusalem Center: un edificio trenta volte più grande del primo, con auditorium, scuole bibliche, sale per la danza liturgica e una regia televisiva che trasmette i sermoni in streaming nel mondo. La costruzione fu finanziata da una lunga campagna di donazioni, sostenuta da fedeli e network evangelici. Oggi il centro impiega decine di persone, ha un palinsesto multimediale proprio e un pubblico che supera le diecimila visualizzazioni a settimana.

Per gli ortodossi sono un’eresia: ma i messianici sono pure punto d’unione tra lobby di Tel Aviv e destra cristiana usa
Quando entra in scena, Jonathan Cahn ha l’aria di un profeta contemporaneo. Capelli neri ricci che incorniciano un volto severo, barba piena e curata, veste interamente di nero: camicia, pantaloni e giacca. Con The Harbinger, il romanzo profetico che collega l’11 settembre alla Bibbia, Cahn diventa un autore da milioni di copie e una voce ascoltata dalla destra cristiana americana. I suoi libri — da The Mystery of the Shemitah a The Return of the Gods — mescolano teologia e geopolitica, storia e profezia, fino a farne una figura a metà tra il pastore e l’oracolo, capace di leggere nella cronaca americana i segni dell’Apocalisse. Sul grande schermo alle sue spalle, lo sfondo alterna tonalità di blu e viola: uno show made in Usa, ma in salsa ebraica. La voce è profonda e modulata, capace di passare dal sussurro all’invocazione con la naturalezza di chi ha trasformato la predicazione in un’arte di regia. È un uomo che domina lo spazio senza sforzo, con la sicurezza di chi sa di essere già, per molti, una figura profetica.

Il Beth Israel è solo una tessera di un mosaico più vasto: quello degli ebrei messianici negli Stati Uniti. Un movimento che intreccia identità ebraica e fede cristiana, e che negli ultimi decenni ha trovato proprio in America il suo epicentro. Le sue radici risalgono al XIX secolo, quando nacquero le prime missioni protestanti rivolte agli ebrei: la American Board of Missions to the Jews nel 1894 e la Hebrew Christian Alliance of America nel 1915, poi rinominata Messianic Jewish Alliance of America (MJAA). Negli anni Sessanta, nel clima del Jesus Movement californiano, questa corrente si rinnovò profondamente: i giovani ebrei che scoprivano Gesù non volevano più rinunciare alla propria identità. Volevano una sinagoga con le chitarre, la Torah e i Vangeli insieme. Da quella spinta nacque il moderno ebraismo messianico, con riti che mescolano la liturgia ebraica e la musica gospel.
Tra i pionieri del movimento spicca Moishe Rosen, fondatore nel 1973 della missione Jews for Jesus. La sua frase – “Being Jewish and believing in Jesus are not mutually exclusive” (“Essere ebrei e credere in Gesù non si escludono a vicenda”) – divenne il manifesto di un’identità ibrida e, per l’ebraismo ortodosso, profondamente controversa. Rosen comprese che l’ebreo convertito a Gesù poteva diventare il ponte ideale tra Israele e l’America cristiana, una figura capace di incarnare la promessa biblica e la visione geopolitica di un Occidente cristiano alleato con lo Stato ebraico.
Negli Stati Uniti, gli ebrei messianici vivono in una posizione di confine che spesso diventa contrapposizione. Per l’ebraismo ortodosso, la loro fede in Gesù rappresenta una violazione radicale dell’identità ebraica: una forma di apostasia travestita da ritorno alle origini. I rabbini delle yeshivot newyorkesi li accusano di “appropriazione spirituale” e di confondere le acque tra fede e proselitismo cristiano. Ma per i messianici, al contrario, sono proprio gli ortodossi ad aver tradito la promessa, ignorando il compimento della profezia.
150 congregazioni: una minoranza “pesante”
A New York — dove vivono circa due milioni di ebrei, la comunità più numerosa al mondo fuori da Israele — la tensione è quotidiana e tangibile. Nei quartieri di Brooklyn e Queens, dove convivono sinagoghe chassidiche e congregazioni messianiche, la separazione è netta: due universi che parlano la stessa lingua sacra, ma non si riconoscono. Gli uni pregano nell’attesa del Messia, gli altri sono convinti che sia già venuto.
Oggi negli Stati Uniti si stimano tra 175 mila e 250 mila fedeli messianici, distribuiti in circa 150 congregazioni, affiliate soprattutto alla Union of Messianic Jewish Congregations (Umjc) e alla Mjaa. Fuori dagli Stati Uniti, il movimento conta circa 350 mila fedeli in tutto il mondo. In Israele se ne contano tra 10 mila e 20 mila, organizzati in una cinquantina di congregazioni tra Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa e le città del Negev. In America Latina si trovano comunità molto vive in Brasile, Messico e Argentina; in Europa piccoli gruppi sono presenti in Germania, Francia, Regno Unito e anche in Italia. Comunità più piccole esistono in Sudafrica, Australia e Corea del Sud, spesso nate da missioni americane.
Sebbene minoranza, gli ebrei messianici esercitano un’influenza sproporzionata grazie ai loro legami con il mondo evangelico conservatore. Come spiega Cahn, “ogni vero cristiano è spiritualmente ebreo”, e in questa formula si condensa una strategia di potere: la fusione fra la promessa biblica e il pragmatismo politico. È qui che il movimento messianico diventa un attore geopolitico, un ponte teologico e lobbistico tra Israele e la destra cristiana americana. Durante il culto a cui assistiamo, Cahn parla di amore e libertà, ma non tocca il tema dell’Apocalisse. Tuttavia, nei video d’archivio del centro le sue parole si ripetono con tono profetico: “La Bibbia dice che negli ultimi tempi Dio radunerà il popolo ebraico nella terra d’Israele. La centralità di Gerusalemme è profetica. Gesù ha detto che non tornerà finché i figli d’Israele a Gerusalemme non lo accoglieranno. Le nazioni si raduneranno contro Israele a causa di Gerusalemme. Quello sarà il preludio della guerra finale: Armageddon.”
Israele cuore della fede, l’America sua custode, i nemici come il male. “Trump? Chi ci benedice sarà benedetto”
Quando lo incontriamo nel suo ufficio alle spalle del maxi schermo, Cahn ci accoglie con un sorriso largo. Ha un volo in un paio d’ore. «Solo pochi minuti», dice, controllando l’orologio, «ma li useremo bene». Cahn parla in modo serrato, con la stessa energia del pulpito. «Beth Israel è una congregazione di credenti in Gesù, ebrei e non ebrei. Siamo legati a Israele perché il cristianesimo è nato ebraico. Chi crede in Gesù è, spiritualmente, parte di Israele». Cahn parla di Gerusalemme come del fulcro della profezia. Secondo lui, «le nazioni si leveranno contro Israele, e sarà per Gerusalemme. Sarà il preludio della guerra finale. Tutto ciò deve accadere prima del ritorno del Messia». Sulla linea di Trump, Cahn è netto: «Il sostegno evangelico a Israele è decisivo. È ciò che tiene l’America fedele al suo destino biblico. Trump lo sa. La sua base più forte è quella evangelica, e questa base crede nella promessa: chi benedice Israele sarà benedetto». Quando il discorso tocca il massacro nella Striscia di Gaza, la voce di Cahn si abbassa, ma il tono non perde autorità. «La guerra è tragica. Israele non la desidera, ma Hamas si nasconde tra i civili. È un inferno», dice, quasi a voler distinguere la compassione dalla colpa.
“I bambini israeliani non imparano a odiare, quelli di Gaza sì”
Le sue parole scivolano piano, ma dentro si avverte una convinzione incrollabile: la guerra non è un errore, è una necessità del disegno divino. «La Bibbia dice che non ci sarà pace finché non verrà il Messia», aggiunge. Nella sua teologia, la pace non è l’opposto della guerra, ma il suo compimento. È la fine di una prova, non la sua alternativa. Poi si alza, stringe la mano e, con un cenno cortese, scompare dietro le quinte. Cahn va via scusandosi per la sua fretta. Ma presto nel suo ufficio alla spicciolata arrivano altri tre rabbini, molto contenti di raccontare la loro comunità. Sono tutti e tre oltre la sessantina, due donne e un uomo chiaramente di origini latino-americane. La conversazione si sposta subito sulla guerra. «Il problema non sono i palestinesi», dice l’uomo. «Il problema è Hamas. È un culto della morte. Mettono le basi sotto gli ospedali, usano i civili come scudi». Una delle donne aggiunge: «Tre bambini israeliani non imparano a odiare. Ma nei video da Gaza, i bambini di tre anni imparano a contare quanti ebrei devono uccidere. È satanico». Interviene l’altra. «È una battaglia spirituale. L’Onu condanna sempre Israele, ma tace su Siria e Iran. È l’opera di Satana contro il popolo ebraico, fin dall’inizio». Intorno a quel tavolo, il linguaggio religioso e quello politico si fondono senza soluzione di continuità. Parlano di fede e di confini, di demoni e di geopolitica, come se tutto appartenesse allo stesso disegno.
L’ideologia che anima il Beth Israel affonda le radici nei maestri del sionismo religioso. Abraham Isaac Kook, nato nel 1865 in Lettonia, sosteneva che la fondazione dello Stato d’Israele fosse parte del piano divino; suo figlio Zvi Yehuda ne fece la base teologica del movimento dei coloni. Dai villaggi della Cisgiordania al sobborgo di Wayne, la traiettoria è diretta: la convinzione che l’espansione d’Israele sia necessaria per affrettare il ritorno del Messia. Al Beth Israel, questa teologia diventa liturgia politica. Ogni sermone, ogni libro di Cahn ripete che la Storia è già scritta, e che il compito dei credenti è riconoscerne i segni. La forza di questa comunità non sta nei numeri, ma nel linguaggio che propone. Israele come cuore della fede, l’America come suo custode, i nemici come incarnazioni del male. È una visione che, in tempi di elezioni e conflitti, vale più di qualsiasi sondaggio.
Fuori dal centro, Wayne torna a essere Wayne. Il parcheggio si svuota lentamente sotto il sole del pomeriggio. Le bandiere restano ferme nell’aria chiara, le auto si allontanano una a una. Dentro, tra le luci e le telecamere ormai spente, resta un silenzio carico di attesa. Pregano per la pace, dicono. Ma nel loro linguaggio la pace è la vittoria di Dio dopo la guerra. Così la preghiera si confonde con la previsione, la fede con la strategia, la profezia con la politica. Chi prega per la guerra non la desidera: la aspetta. E, nell’attesa, la prepara.