Anche Zeus era l’oppio dei popoli
l'analisi

Anche Zeus era l’oppio dei popoli

di Emanuele Greco

Prendiamo spunto da un paio di esempi per descrivere uno degli atteggiamenti dei Greci nei confronti della religione. Erodoto riflette sul problema e ci comunica una sua profonda convinzione: “La divinità ama in qualche modo dar segni premonitori quando a una città o a un popolo stiano per arrivare grandi sciagure” (traduzione di G. Nenci). Si sofferma su due eventi verificatisi nell’isola di Chio. Nel primo, di un coro di cento giovani inviati a Delfi tornarono a casa solo due, 98 morirono con la peste; e poi, durante una lezione in un’aula di 120 bambini che imparavano a leggere, uno solo si salvò dal crollo del tetto.

Non v’era dubbio che la successiva sconfitta ai Chioti, nello scontro contro Istieo dittatore di Mileto, era stata preannunciata e nessuno ne dubitava. In quel periodo la minaccia persiana si abbatteva sulla Grecia, i barbari stavano sbarcando a Maratona e gli Ateniesi chiedono soccorso a Sparta nel nome dell’appartenenza al medesimo popolo (ancorché politicamente diviso). Mandano a Sparta il corridore Fidippide (che non corre la maratona dopo la battaglia, quella la compiono Milziade e gli Ateniesi in armi per difendere la città rimasta sguarnita).

E che fanno gli Spartani? Rispondono che non possono muoversi sino al plenilunio, per rispetto rigoroso della tradizione religiosa. Non esitiamo a scorgere in ciò i segni di una superstizione. Del resto, quando Lucrezio sentenzia che la religio induce a compiere malefatte (tantum religio potuit suadere malorum), noi traduciamo la parola religio da lui usata con superstizione.

Nondimeno, anche gli Ateniesi cadono nella trappola degli indovini per fare le loro scelte, spesso drammatiche. È il caso di Nicia, il comandante in capo della spedizione ateniese contro Siracusa nel 415-13 a.C. Lui è un aristocratico moderato che è passato alla storia per aver realizzato nel 424 a.C. la pace con gli Spartani, anche se breve ed effimera, che ancor oggi è nota come “la pace di Nicia”. Poi presto è arrivata la ripresa delle ostilità. Ma, nel 415 a.C. la follia politica orchestrata da Alcibiade aveva convinto la massa degli Ateniesi a muovere guerra a Siracusa, affascinati dalla promessa di realizzare cospicui bottini in un regione ricca e fertile, ma anche da considerare come un ponte da cui passare poi a Cartagine d alla conquista del nord Africa, specialmente la Libia. Nicia era contrario, ma Alcibiade lo indicò come capo della spedizione, incarico politico di prestigio che lui non poteva rifiutare. Poco dopo la partenza dal Pireo per una delle spedizioni militari più spettacolari di quel tempo, Alcibiade dovette fuggire e riparare a Sparta perché inseguito da un mandato di cattura per uno scandalo nel quale era coinvolto. L’armata ateniese rimase così sotto la guida di Nicia cui si aggiunse un secondo comandante, Demostene (da non confondere con il celebre omonimo oratore, attivo mezzo secolo dopo).

Le vicende della guerra sotto le mura di Siracusa conobbero esiti alterni di vittorie e sconfitte per entrambi gli eserciti che si affrontavano con uno sterminio di uomini senza pari. Poi le cose volsero decisamente a favore dei Siracusani, anche grazie all’aiuto degli Spartani che inviarono rinforzi in favore di Siracusa sotto la guida di un geniale comandante, Gilippo. Nel momento più tragico della guerra molti chiedono a Nicia di tornare indietro, ma lui è superstizioso e non vuole perché devono aspettare tre volte nove giorni prima di partire per assecondare quello che indicavano i vaticini. Tucidide ci racconta le varie fasi della guerra fino a quella finale, non mancando, da lucido razionalista, di sottolineare quanto fosse folle da parte di Nicia farsi guidare dalla superstizione in un momento così vitale per quella guerra che doveva costare la vita a migliaia di soldati.

E infatti caddero in molti, prima Demostene, poi lo stesso Nicia; 7000 ateniesi, scampati alla morte, furono rinchiusi nelle famigerate latomie siracusane dove la maggior parte perì di stenti. Ma, tornando all’esperienza mistica, senza pretesa di esaurire un argomento immenso, va detto che tutta la storia religiosa antica (greca e romana) è un percorso non certo lineare e senza il completo superamento della superstizione, dal mito alla sua razionalizzazione (il logos) entro un pantheon politeistico composto da figure che hanno sembianza umane e soprattutto comportamenti molto simili agli esseri umani, che si oppone al monoteismo della religione rivelata di ascendenza biblica o a quella islamica del dio unico. Com’è stato opportunamente osservato, è nelle religioni monoteistiche che si manifesta più frequentemente la tendenza all’ intolleranza rispetto alle politeistiche, in genere più tolleranti, ma sicuramente regolate, come le altre, del resto, dall’uso delle credenze come strumento per governare un popolo minuto e facilmente condizionabile e riconducibile alle ragioni dei capi al grido di deus vult, il dio lo vuole.

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