Biciclettopati
di Stefano Citati

I mondiali in Rwanda e il chukudu “vietato”

Li hanno tenuti lontani dal percorso, lustrato per la gloria del paese che ha vissuto il peggior genocidio dalla II Guerra Mondiale. Potenza delle cifre: 800mila morti in cento giorni, non con missili o proiettili di cannone, con machete e granate (anche dentro le chiese zeppe di fedeli). Trentun anni dopo il Rwanda è stato il regno del ciclismo, ospitando tra le sue “mille colline” i mondiali. È il coronamento degli sforzi del dittatore che ha pacificato il paese dopo lo sterminio della sua etnia – i tutsi (i watussi della canzone di 60 anni fa di Edoardo Vianello, ndr) – da parte della maggioranza Hutu. Paul Kagame guida con inflessibilità il piccolo paese sulla Rift Valley, passato da ex colonia francese all’area di influenza anglosassone, cercando una ribalta internazionale per una nazione piccola ma agguerrita e con un’impronta politica assai più vasta del suo territorio, come l’influenza che esercita sulle regioni orientali del vicino colosso congolese, proprio dove maggiori sono le riserve di metalli preziosi. Il leader rwandese, grazie anche al buon nome del suo esercito, considerato come “gli israeliani d’Africa”, ha cercato accordi con Londra per ospitare gli immigrati cacciati dal governo inglese (idea poi mutuata da Roma con l’Albania) e ottenuto di organizzare i mondiali di ciclismo sui pendii che superano i 2.800 metri di quota. Perché tutto fosse perfetto ha tenuto lontani dalle strade i chukudu, monopattini tutti di legno che la popolazione usa per trasportare le merci, mezzo iconico e spina dorsale degli scambi da villaggio a villaggio. Tra un chukudu e una bici in carbonio passa la stessa distanza del Rwanda del 1994 da quello di oggi.

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