Già dagli anni Ottanta un sindaco dichiaratamente comunista, per quanto anacronistico ciò possa essere nel 2025, si esprimeva contro la ‘ndrangheta locale facendo nomi e cognomi. Anni dopo, la gente che lo conosce e lo ha votato rimarrà perplessa nel vedere che la giunta guidata da quello stesso sindaco viene sciolta per infiltrazione mafiosa. Se chi legge fosse portato a pensare che evidentemente quel sindaco poi tanto anti-‘ndrangheta non era, si sbaglierebbe. Il sindaco comunista era ed è davvero un sindaco apertamente contro la mafia del suo paese. Tanto che il capomafia locale, intercettato mentre commentava lo scioglimento con il suo avvocato, conferma che qualcosa non va: «Hanno fatto bene…chi di arma ferisce di arma perisce!». L’avvocato gli chiede poi chi fosse il sindaco; il capomafia risponde «un comunista!» per sentirsi rispondere «allora sì!». Era il 2018 ed eravamo a Limbadi, piccolo centro del Vibonese, quell’anno sciolto per infiltrazione mafiosa a seguito di accertamenti su affidamenti diretti e parentele scomode in giunta nel 2021 colpito dalla maxi-inchiesta Rinascita-Scott. Limbadi è il comune sciolto nel 1983 per ordine pubblico a seguito di elezioni che videro un latitante eletto nelle liste comunali, prima che esistesse la legge sullo scioglimento. Lui si chiamava Ciccio Mancuso ed era comunista. Il rinnovo della tessera della sezione del partito a Limbadi gli fu negato proprio da quel sindaco la cui giunta è stata sciolta nel 2018. Non sappiamo come vota oggi il capomafia a Limbadi, ammesso che abbia votato mai tra una detenzione e l’altra, ma sappiamo che il mafioso se vota, vota come conviene. E votare quel sindaco quanto meno non gli conveniva.
Calabria, le amministrazioni vivono in perenne situazione di emergenza tra parentele, mafiosi e uno Stato contraddittorio
«Io voto dove mi conviene», è quello che si dicono praticamente in contemporanea l’uno all’altro Giuseppe Barbaro e Rocco Varacalli intercettati durante l’operazione Millennium di fine maggio 2025 della Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria. Entrambi raggiunti da misura cautelare in carcere, sono accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico di stupefacenti, estorsione, e anche di avere avuto contatti diretti nelle amministrazioni comunali di diversi centri della Locride. Giuseppe Barbaro è definito membro apicale della ‘ndrangheta di Platì, paese aspromontano spesso al centro di racconti di sequestri e di storie di ‘ndrangheta; Varacalli è definito suo uomo di fiducia. Parlano di voti da “gestire in famiglia”; di “impegni” da prendere o già presi nei confronti di vari candidati, spesso a mezzo di conoscenze interposte, di fac-simile dei plichi elettorali da ottenere e presumibilmente distribuire, di interessi su alcuni appalti nel vicino comune di Ardore. Sicuramente dimostrano interesse e impegno per la politica regionale (oltre che per la cocaina). Ma, tra i vari comuni della Locride e dei vari candidati di altre zone della Calabria di cui parlano sembra mancare proprio Platì, il cui comune è stato sciolto per tre volte (2006; 2012; 2018) e il cui ultimo sindaco, Rosario Sergi, è stato dichiarato decaduto in seguito a una tortuosa vicenda giudiziaria per accertarne una ineleggibilità di partenza. Ma di Platì i nostri soggetti Barbaro e Varacalli, almeno in quella tornata, non si interessano. Che non gli convenga? Nel 2016, la commissione parlamentare antimafia in una relazione sulle elezioni dei comuni a rischio di infiltrazione mafiosa aveva notato come sia il poi vincente sindaco Sergi che la sua rivale, Mittiga, e molti nelle loro liste avessero una «fitta rete di parentela e frequentazioni» nonostante poi si dirà nel decreto di scioglimento del 2018 – il terzo per Platì – che lo stesso primo cittadino Sergi “è stato recentemente destinatario di atti intimidatori”. C’è da dedurre che o l’intimidazione venisse dagli stessi parenti mafiosi o che questi ultimi non sappiano o vogliano proteggerlo, perché, forse, non gli conviene o non gli interessa. E intanto molti sindaci stanno in mezzo, tra mafiosi compaesani e Stato contraddittorio.
Ma cambiamo lato della Montagna e andiamo a San Luca, altro paese aspromontano spesso superficialmente dipinto come culla della ‘ndrangheta. A San Luca c’è oggi un commissario: il commissariamento per mafia della primavera 2025 è andato a sostituire il precedente commissariamento per mancate elezioni già in corso. Due commissariamenti praticamente in contemporanea, un record. Per un totale di tre scioglimenti per mafia in tutto (2000; 2013; 2025) che è la conferma che il commissariamento non funziona. A San Luca si è votato nel 2019 e una volta scaduto il mandato il sindaco Bruno Bartolo non solo non ha voluto ricandidarsi, ma ha denunciato il totale abbandono da parte delle istituzioni che al tempo delle elezioni gli avevano promesso sostegno. Salvo poi finire indagato per una faccenda che riguarda bancarelle al Santuario della Madonna di Polsi, sempre nel comune di San Luca, lo stadio comunale di San Luca e presunti abusi d’ufficio; illeciti amministrativi e forzature del sistema che al meglio sono naïve, al peggio sono in malafede.
Lo scioglimento arriva dopo il commissariamento della Fondazione Corrado Alvaro che, dice la prefettura, non solo aveva degli ammanchi economici da spiegare (a fronte di finanziamento pubblici mai arrivati…), ma era anche gestita da persone i cui prossimi congiunti sono o pregiudicati per mafia, oppure sospettati di appartenenza mafiosa. A San Luca, dunque, la ‘ndrangheta pare essere ovunque anche perché, si legge nella relazione prefettizia del marzo 2025, “l’ente pubblico e quelli privati (la Fondazione Corrado Alvaro, pur essa commissariata e l’Associazione Il Nostro Tempo è la Nostra Speranza, ndr) paiono porsi in una situazione di influenza reciproca”. La relazione prefettizia nota come “anche solo attraverso rapporti interpersonali” si possa avere un “semplice condizionamento, laddove si registri una ‘tolleranza’ o una ‘inerzia’ da parte delle amministrazioni locali nei confronti di certe condotte o attività”. Ma se di tolleranza e di inerzia per i familiari e i congiunti si tratta allora, verrebbe da dire, non ha proprio senso andare a votare a San Luca: bisognerebbe commissariare ad libitum per accertarsi che chi governa non abbia parenti scomodi da tollerare con buona pace della democrazia che tanto a San Luca è data per morta da tempo. I parenti non vengono eliminati dal commissariamento, no? Questo è quello che pensano tanti sanluchesi. Se è vero, come dice la Prefettura, che “è proprio il godimento indisturbato della res publica l’espressione più evidente dell’assoggettamento della pubblica amministrazione al potere mafioso”, a San Luca pare essersi scelta la via dell’attacco istituzionale della res publica così che nessuno, mafiosi e non, ne possa godere.
Quando sono uomini liberi, gli ‘ndranghetisti votano come conviene, oppure non votano. Giocano a calcio. Vanno al bar. Stanno in famiglia. A San Luca come a Platì e come a Limbadi alcuni ‘ndranghetisti sono parenti di trafficanti di droga che non vogliono essere mafiosi e che a loro volta sono parenti di persone perbene: essere ‘ndranghetista e trafficare droga non è sempre la stessa cosa in Calabria. Alcuni ‘ndranghetisti si interessano di politica di paese, per vie indirette o per il favore di turno. Ad attirarli non è solo il potere o il consenso – sicuramente quello interessa e ha varie sfaccettature – ma anche l’inefficienza della macchina amministrativa e la fragilità politica: se serve qualcosa si cerca il favore non la procedura corretta, perché ci si conosce tutti, perché si fa prima. Questi paesi sono spesso talmente inefficienti che alla mafia nemmeno interessano davvero: mettere le mani su budget comunali in rosso, appalti di valore irrisorio e qualche finanziamento per la festa del paese non è l’interesse ultimo della ‘ndrangheta. L’interesse ultimo è che tra inefficienza e vuoto governativo nulla cambi mai davvero, il popolo non reagisca. Lo scioglimento dei comuni, pratica tanto contestata quanto da molti, inclusa chi scrive, ritenuta inefficace per il fine che si prefigge, in questi paesi vede le sue problematiche amplificate. Se scioglimento deve essere, non può venire senza un accompagnamento dei paesi commissariati, mentre ciò che si osserva è solo abbandono.
Non esiste una vera scelta politica e le elezioni si fanno nella paura di venire commissariati, quando si fanno; anni di commissariamento non permettono il nascere di nuove formazioni politiche. In questi posti cresce il numero degli arrabbiati con lo Stato, malati di risentimento, radicalizzati nel loro sentirsi abbandonati, vittimisti nel ciclo continuo di criminalizzazione della fragilità e aspettative mancate di riscatto. Dietro gli scioglimenti e le inchieste non ci sono soltanto reati e responsabilità individuali o appetiti mafiosi, ma un tessuto politico-amministrativo lacerato e abbandonato, giudicato male e contraddistinto da pregiudizi. Come dettato dalla sua natura predatoria e conservatrice, la ‘ndrangheta continua a prosperare sulle fratture lasciate dal declino pubblico. La sfida non è solo repressiva: bisogna restituire a questi paesi la possibilità di essere, semplicemente, normali e non costantemente in emergenza.