Quest’estate ci ha lasciati all’improvviso il nostro amico e collega Mauro Del Corno. Aveva solo 53 anni, si trovava in Uzbekistan, in viaggio con la famiglia, se n’è andato nel sonno. A Samarcanda, come nella famosa canzone di Roberto Vecchioni. Millennium si unisce al dolore dei suoi cari, Mauro mancherà moltissimo anche a noi. E ai nostri lettori che hanno avuto modo di apprezzare il suo lavoro. Uno dei nostri numeri di maggior successo, quello sui “Padroni del mondo” (n. 83), lo dobbiamo a lui. Sul finire di una riunione di redazione di ilfattoquotidiano.it, con il suo abituale understatement buttò lì: «Negli Stati Uniti sta per uscire il libro di un sociologo che spiega perché i grandi fondi di investimento sono i nuovi padroni del mondo». Parlava di Blackrock, Vanguard, State Street… Entità ignote al grande pubblico, che però gestiscono patrimoni immensi. E sono in grado di condizionare le grandi imprese, le banche, la politica, il welfare, le normative, persino ong e istituzioni culturali. “Potrei scrivere una recensione”, concluse. Invece nel giro di trenta secondi “i padroni del mondo” erano già diventati il tema di copertina del numero successivo del nostro mensile, dove lui poi firmò l’inchiesta portante.
La sua competenza di giornalista economico-finanziario gli permetteva di raccontare come funzionavano davvero le aziende e i mercati, al di là di mitologie e demonizzazioni ideologiche. Ma Mauro faceva di più. Leggeva molto, in modo incessante. Sulla sua scrivania, qui in redazione, impilava libri su libri, in particolare di quella nicchia di autori che negli ultimi anni, pressoché ignorati dal mainstream, hanno proposto critiche severe e documentate al sistema capitalista e alle sue degenerazioni. «Ma come, non hai mai letto Mark Fisher?», ti rimbrottava bonario. Così ha fatto conoscere ai lettori di Millennium una nuova generazione di pensatori radicali, soprattutto in tema di economia e di ambiente, di cui ha scritto nel numero intitolato “Ribellarsi” (n. 87).
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Su queste solide basi, Mauro era in grado di spiegare, numeri e fatti alla mano, come le aberrazioni del sistema si abbattono su di noi, e in particolare sui più deboli, a vantaggio di un’esigua minoranza di ultraricchi e ultrapotenti. E si domandava, ostinatamente, se esistesse ancora un modo per cambiare le cose. Come potete leggere nei tre brani che seguono, tratti dal suo libro del 2023 Piccolo manuale per grandi rivoluzioni, che la casa editrice Guerini e associati ci ha concesso di pubblicare, contribuendo così al suo ricordo. Il filo conduttore del “manuale”, scriveva Mauro, “è rappresentato dalla deriva sociale, economica, umana e ambientale che sta provocando il nostro modello di sviluppo”.
Piccolo manuale per grandi rivoluzioni
di Mauro Del Corno
Assistiamo a una desertificazione delle alternative, si ragiona al massimo su gradazioni. D’accordo, i paesi scandinavi sono differenti dagli Stati Uniti, ma sono mondi diversi di uno stesso universo che sembra, con avanguardie e ritardatari, muoversi nella stessa direzione. E dal nostro punto di vista poco importa che la versione base venga sostituita da declinazioni più muscolari e populiste, incarnate da personaggi come Donald Trump. Per pensare altro mancano persino le parole. Lotta di classe, capitale, sfruttamento, gettate negli scantinati della storia, ma di cui sarebbe opportuno riappropriarsi. Chi mette in discussione l’ordine delle parole critica l’ordine delle cose. Come ricorda il filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo». Come ricordava Antonio Gramsci nei suoi Quaderni dal carcere: «Il linguaggio è un insieme di nozioni e concetti determinati e non già e solo di parole grammaticalmente vuote di contenuto […] in cui è contenuta una determinata concezione del mondo».
“È la desertificazione delle alternative, per pensare altro ci mancano le parole”
A rifletterci, il neoliberismo è una ben triste visione e filosofia di vita. Limitata e sulla soglia del claustrofobico. Davvero non possiamo aspirare, e non siamo in grado di concepire, nulla di meglio di questo tetro e violento modo di stare al mondo? Sono tante le cose che potrebbero essere almeno smussate o aggiustate, se ci fosse la volontà di farlo. Prima ancora se ci fosse la consapevolezza di quel che accade e come. Ci stiamo invece abituando e rassegnando a convivere con storture sociali drammatiche, a volte oscene. Siamo convinti che sia il normale e inevitabile modo di funzionare delle cose. Diseguaglianze esasperate, folli regimi fiscali, totale libertà e impunità per le più spregiudicate attività finanziarie, apparati informativi e scolastici che perseguono un’«educata umiliazione» di chi è solo meno fortunato, sistemi sociali strutturati per generare una profonda alienazione e atomizzazione degli individui. Di fronte a sfacciate ingiustizie di cui abbiamo quotidianamente conoscenza può sorprendere il livello di passiva accettazione raggiunto, l’assenza di reazioni significative. Di fronte a questa sensazione di impotenza e incapacità di agire sulle cose, Lukács parlò di uno «stato di permanente disperazione per l’andamento del mondo».
Salari e profitti, ecco i numeri che inchiodano il sistema
Nel 2000 gli occupati delle industrie statunitensi erano 17 milioni, nel 2009 erano scesi a 11,5 milioni. Le grandi aziende esportatrici occidentali hanno accumulato sempre più denaro ma, dagli anni Novanta in poi, non hanno creato nessun posto di lavoro netto aggiuntivo. Le imprese vendono oggi i loro prodotti a prezzi in media superiori del 54% al costo che sopportano per produrli, prima del 1980 la cifra era intorno al 20%. I maggiori incassi sono andati solo ai lavoratori in misura irrisoria. La quota di profitti sul totale degli stipendi era del 5% all’inizio degli anni Ottanta. Oggi è salita al 43%. In alcuni casi, per esempio la casa farmaceutica Pfizer, gli utili hanno raggiunto il 210% del valore delle buste paga. Per il colosso della tecnologia Apple il rapporto è addirittura del 300%. A partire dal 1980 produttività e stipendi iniziano a separarsi. La produttività, ossia la quantità di beni prodotti in un determinato intervallo di tempo, che dipende soprattutto dagli strumenti che si hanno a disposizione, sale. Gli stipendi no, o molto di meno. La parte che non va ai salari finisce nelle tasche dei proprietari delle aziende. Negli Stati Uniti tra il 1948 e il 1979 la produttività sale del 118%, le buste paga del 107%. Nei trent’anni successivi gli incrementi sono rispettivamente del 162% e del 117%.
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È utile ricordare come un miglioramento degli standard di vita dei lavoratori possa essere perfettamente coerente con una distribuzione della ricchezza sempre più iniqua. Il fatto che un operaio non lavori più 16 ore al giorno, non viva più (o quasi più) in malsane catapecchie non significa affatto che la quota di ricchezza prodotta anche con il suo lavoro che riceve sia cresciuta. La ricchezza complessiva è aumentata, ma non lo è la parte che finisce ai lavoratori. Dal 1980 in poi, con l’avvio della deregolamentazione dei mercati e delle economie, inizia infatti a divaricarsi l’andamento di produttività e salari. La prima cresce, i secondi no o comunque proporzionalmente molto di meno. Quarant’anni fa inizia anche un’altra tendenza, le imprese vendono a prezzi che, in media, diventano sempre più alti rispetto ai costi sostenuti per la produzione (tra cui quello del lavoro). Dal 21% in più del 1980 si arriva fino al 54% del 2020. Nel 1970 i redditi da lavoro ammontavano al 65% del prodotto interno lordo e i profitti per circa il 3%. Oggi le quote sono rispettivamente del 59% e 12%.
Un’altra angolazione da cui cogliere il rafforzamento del capitale in rapporto al lavoro è la seguente. Tra il 1970 e il 1979 l’aumento dei prezzi dei prodotti negli Usa è andato per il 65% a favore del lavoro e per il 10% in maggiori profitti. Nei quarant’anni successivi il rapporto è cambiato a 55%-20% (il resto sono «altri costi»). Nei due anni di pandemia (2020-2022) 50% e 35%. A guadagnare sempre di più sono i proprietari delle aziende e i manager di alto livello. Negli Stati Uniti gli stipendi medi dei manager sono cresciuti, dal 1978 a oggi, in media del 1.400%, quelli dei normali lavoratori appena del 18%. Il numero uno del colosso dell’e-commerce Amazon guadagna oggi 6.400 volte un dipendente del gruppo con un salario medio. In compenso, la società solo nel 2022 ha speso oltre 14 milioni di dollari per consulenze antisindacali. I governi non hanno fatto nulla per compensare questa dinamica, anzi spesso hanno fornito un aperto supporto all’assalto delle aziende ai diritti dei lavoratori.
Un patto fra generazioni: noi siamo in tanti, loro sono in pochi
Essendo nato negli anni Settanta del secolo scorso, faccio parte di una generazione forse più silenziosa di altre ma ormai potente, che occupa molti dei posti chiave in politica, istituzioni e aziende. È una generazione che porta sulle spalle, insieme a quelle che l’hanno preceduta, molte responsabilità per come stanno oggi le cose. Ma è anche una generazione «di mezzo», nata in un mondo (contrapposizione dei blocchi, pre-internet ecc.) e in parte cresciuta in un altro. L’ultima ad avere diretta memoria di un «prima» e quindi in grado di guardare le cose da una posizione altra ed esterna. L’unica che può svolgere il ruolo di ponte tra il mondo di oggi e uno in cui le tendenze e i processi di cui abbiamo parlato non erano così esasperati. Affiancare e sostenere i più giovani con questa consapevolezza, nelle gigantesche sfide che si trovano ad affrontare, può essere un modo per rimediare ai tanti errori commessi. Forza, noi siamo in tanti, loro sono in pochi.
(Da Piccolo manuale per grandi rivoluzioni, Guerini & Associati, 2023)