In occasione della Giornata Mondiale per la consapevolezza sull’Autismo ilFattoQuotidiano.it ha intervistato Barbara Di Marco, terapista della neuropsicomotricità dell’età evolutiva, esperta nel trattamento dell’autismo attraverso la terapia cognitivo-comportamentale. Classe 1990, è laureata presso l’Università di Roma Tor Vergata e ha due master: uno in “Posturologia clinica” (Tor Vergata) e l’altro in “Comunicazione Aumentativa Alternativa e Tecnologie Assistive”, presso l’Università Lumsa di Roma. È un tecnico ABA/VB – iscritto all’Elenco regionale della Regione Lazio – e Specialista in Comunicazione Aumentativa Alternativa e Tecnologie Assistive.

Partiamo dall’inizio, cos’è – in estrema sintesi – l’autismo?
È un disturbo del neurosviluppo.

Lei da quanto tempo svolge il suo lavoro?
Da 11 anni, quasi esclusivamente con bambini con disturbi dello spettro autistico: di età dai 18 mesi ai 15 anni.

Dove lo svolge principalmente?
In casa e a scuola. Nella scuola, però, non si fa terapia bensì si cerca di creare un continuum tra casa e scuola, anche formando le insegnanti sulla gestione del comportamento del bambino.

Quali sono le cause dell’autismo?
Non c’è un’unica causa che lo possa determinare. C’è una eterogeneità di fattori: l’organizzazione delle strutture cerebrali, un’alterazione di alcune parti del cervello, fattori ambientali. Ogni individuo – pur rientrando nelle stesse caratteristiche diagnostiche – ha delle caratteristiche diverse. Da qui l’origine della parola ‘spettro’.

Ci descrive le caratteristiche diagnostiche?
Difficoltà nell’entrare in relazione con l’altro, interessi limitati e ristretti, presenza di un linguaggio stereotipato o assenza totale di linguaggio.

Degli esempi concreti?
Quello che si nota nell’autismo è una regressione intorno ai 15/16 mesi di vita. Il bambino raggiunge delle tappe di sviluppo come tutti gli altri bambini ma poi c’è una perdita di queste abilità. Un bambino che inizia a parlare e poi smette è un campanello d’allarme. Ma anche uno sguardo sfuggente, il poco interesse verso le persone ma più verso gli oggetti. Infine, un uso particolare degli stessi, con particolare ricerca di determinati stimoli o lo sfarfallio delle mani. Oltre alla scarsa attenzione ai pari, questo si nota specialmente nella scuola.

Che ruolo ha la scuola?
Fondamentale, ma non sostiene. Io ad oggi per il mio lavoro ho conosciuto diverse realtà, tutte pubbliche, dall’asilo nido alla scuola secondaria. Si tratta di una giungla. Sono pochissimi i bambini autistici che hanno insegnanti di sostegno specializzate nel trattamento dell’autismo. E comunque cambiano ogni anno. I docenti di classe, invece, spesso considerano gli alunni autistici come un fastidio. Alcune scuole impediscono anche al tecnico specializzato di entrare.

Come lo giustificano?
Dicono che non serve oppure trovano dei cavilli burocratici, una serie di autorizzazioni infinite da richiedere.

Qual è il danno?
La mancanza di continuità nella terapia, in primis.

Esempi positivi ne ha avuti?
Sì, un bambino che seguo frequenta una scuola primaria dove c’è un gruppo incredibile. Lui è non-verbale, utilizza un comunicatore per esprimersi. I docenti sono meravigliosi, ma soprattutto i compagni utilizzano il comunicatore con lui per parlare. Questo è molto bello.

Cosa può fare la politica?
È necessario un maggiore sostegno alle famiglie, soprattutto economico. Ma anche l’inserimento di determinate tipologie d’intervento veramente pubblico e senza limitazioni di ISEE. Le famiglie ne hanno bisogno, non devono essere lasciate sole. Dal punto di vista della scuola pubblica c’è bisogno di ‘chiacchierare’ di meno e rispettare più concretamente le indicazioni della Convenzione ONU del 2006. L’Italia non vuole sentir parlare di ‘classi speciali’ ma poi non sa davvero includere. Per non parlare del discorso delle liste d’attesa.

Ovvero?
Solitamente l’Asl ha un neuropsichiatra di riferimento per la diagnosi. Da lì la famiglia sceglie il percorso riabilitativo, che dovrebbe coinvolgere diverse figure: tecnici (da 1 a 3), psicotepeuti, specialisti di comunicazione aumentativa, i logopedisti. Dipende su cosa è necessario lavorare. Alcuni interventi sono privati e altri pubblici, con liste d’attesa lunghissime. Più il paziente è piccolo e meno aspetta. Ma io seguo bambini con liste d’attesa lunghe 5 anni. È veramente triste.

Quali sono gli stereotipi che andrebbero abbattuti?
Quello di pensare che chi soffre di autismo sia una persona chiusa in una bolla che va solo curata perché malata. Non è così. Ogni bambino – parlo di loro soprattutto, in base alla mia esperienza – possiede competenze e interessi che vanno valorizzati. Proprio per questo la giornata mondiale dedicata contiene il termine ‘consapevolezza’.

C’è una storia a cui è legata maggiormente?
Sicuramente il bambino che avevo preso in carico quando aveva 18 mesi e ora ha 11 anni rappresenta una storia incredibile. Parla molte lingue, le impara da YouTube e si sta appassionando al videomaking. Ha una grande empatia e sensibilità.

Cosa pesa di più nella quotidianità di una famiglia che ha un figlio con spettro dell’autismo?
Il linguaggio. Prima o poi sempre i genitori ci chiedono: ‘Parlerà mai?’. La realtà dei fatti è che non si sa. Questo, a livello emotivo, va a impattare molto nella vita del bambino e dei genitori. Quello che si deve cercare, in questo caso, è integrare più terapie che lavorino sulla comunicazione. Le famiglie devono essere messe in condizione di comunicare con i figli, con modalità diverse da quelle ritenute ‘tradizionali’.

Cosa si sente di dire ai genitori?
Anche loro devono essere seguiti, non devono essere lasciati soli. Purtroppo, la diagnosi del figlio non sparirà, ma ci si può convivere, si possono fare grandi passi in avanti.

E quando i genitori non ci saranno più?
Dipende. Già dai 12 anni in poi si spinge il più possibile sull’autonomia; logicamente esistono poi gli altri parenti e le case-famiglia, che sono un contesto più protetto.

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