Dieci anni dopo, riecco Renato Brunetta. A gestire lo stesso ministero che guidò con molti proclami e pochi risultati ai tempi del governo Berlusconi. L’economista di Forza Italia sarà di nuovo il ministro della Pubblica amministrazione del governo Draghi, lo stesso dicastero che guidò dal 2008 al 2011 nell’ultimo esecutivo Berlusconi – quello di cui facevano parte anche le ri-ministre Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna – attirandosi numerose critiche per la riforma che mirava a “premiare i lavoratori meritevoli e punire i fannulloni”, anche con il licenziamento. Non andò bene e la Pubblica amministrazione non è migliorata, basti pensare che neanche quattro anni dopo la sua riforma, un altro governo – quello di Renzi – rimise mano al comparto con la riforma Madia. E adesso la revisione della macchina della Pubblica amministrazione è una delle precondizioni per ottenere i miliardi del Recovery Plan: è infatti una delle raccomandazioni specifiche per il nostro Paese. Il governo Draghi si affida, per questo importante incarico, all’uomo che ricoprì lo stesso ruolo fino a 10 anni fa, ottenendo un sostanziale fallimento.

Veneziano, 70 anni, figlio di un venditore di souvenir, alla fine siederà nel Consiglio dei ministri guidato da Mario Draghi, invocato fin dallo scoppio della pandemia, quando richiamava alla necessità di un governo di unità nazionale. È la vittoria dell’ala moderata di Forza Italia, che con lui, Carfagna e Gelmini porta tre rappresentanti nel governo lasciando a bocca asciutta quel pezzo di partito – capitanato da Antonio Tajani e Anna Maria Bernini – che strizzava l’occhio al sovranismo di Matteo Salvini. Professore di economia del lavoro all’Università di Roma Tor Vergata oltre che deputato di Forza Italia, Brunetta è di formazione socialista e negli anni Ottanta collabora in qualità di consigliere economico con i governi Craxi I, Craxi II, Amato I e Ciampi. Si candida due volte a sindaco di Venezia (nel 2000 e nel 2010), senza mai venire eletto.

È tra il 2008 e il 2011 che il suo nome diventa noto. Tutto merito (o colpa) della riforma e delle pesanti critiche che non lesina a una parte dei lavoratori pubblici. La ‘rivoluzione’ ideata a palazzo Vidoni è sintetizzabile con l’applicazione del principio ”premiare i meritevoli e punire i fannulloni”, anche con il licenziamento. La riforma puntava su responsabilità dei dirigenti, premi per il merito e accelerazione sull’e-government. Nel 2009 elabora una prima bozza del decreto di attuazione della legge che qualifica la futura Commissione indipendente per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche come autorità indipendente, dotato di potere di auto-organizzazione e piena autonomia finanziaria, garantendogli così l’indipendenza e l’autorevolezza necessaria per fare da arbitro tra Pa e cittadini ed assicurare la trasparenza: si trattava di una proposta dell’opposizione, fatta propria dal ministro Brunetta, e scritta in collaborazione col politologo e allora deputato Pd Pietro Ichino.

La norma vide la luce con il decreto legislativo che riformò il sistema dei controlli interni e istituì un ciclo di valutazione del personale nella pubblica amministrazione italiana. A tal proposito, nel 2008 fece scalpore un’espressione utilizzata proprio dal ministro che aveva definito “fannulloni” alcuni dipendenti della Pa, minacciando di licenziarli. E disciplinò le assenze dei con decurtazioni dello stipendi e visite fiscali anche per un solo giorno di assenza.

Quella contro i fannulloni non fu l’unica invettiva. Una volta attirò le ire dei sindacati di polizia, parlando di agenti “panzoni” mandati in strada a 50 anni e in un’altra occasione entrò in polemica con la collega Mara Carfagna, anche lei tornata ora in Consiglio dei ministri, perché sostenne che il lavoro pubblico era stato lungamente considerato “un ammortizzatore sociale, soprattutto da parte delle donne” che utilizzavano parte del tempo per fare la spesa. Non sarà l’unica con cui ha discusso pesantemente insieme alla quale prenderà le decisioni in seno al Consiglio. Si ritroverà anche quel Luigi Di Maio che definì “spudorato”, “ignorante”, spaccone e pure “truffatore”. Sembrava averci ripensato già a novembre: “È un vero leader, è intelligente e preparato”, disse. Tempi passati, insomma.

Come è un’era geologica fa quella in cui, tra i suoi sogni, disse lui stesso scatenando molte ironie, c’era quello di vincere il Premio Nobel: “Ero anche bravo, ero… non dico lì lì per farlo, però ero nella giusta… ha prevalso il mio amore per la politica”. Adesso tornerà a occuparsi di cose molto più pratiche e impellenti. Sul tavolo si troverà il delicato dossier della regolamentazione dello smart working e del lavoro agile a cui la pandemia ha obbligato i dipendenti pubblici.

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