Dopo la sconfitta dello Stato Islamico e l'assedio alle ultime sacche di resistenza jihadista nel Paese, gli equilibri siriani subiscono un nuovo stravolgimento dopo la ritirata delle truppe americane dal nord-est e la conseguente invasione voluta dal presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan. Prima di avviare dei colloqui di pace è necessario, adesso, risolvere la questione curda
Dopo la riconquista dei territori in mano allo Stato Islamico da parte della coalizione occidentale (che ha sostenuto l’avanzata curda da nord) e del blocco russo-sciita, fino a poche settimane fa la situazione vedeva regime di Damasco, Russia, Iran e Hezbollah impegnate sul fronte Idlib con l’obiettivo di ricostruire una Siria sotto il governo Assad.
Nel frattempo la Turchia, seconda potenza della Nato accusata di aver sostenuto l’Isis durante il conflitto permettendo il passaggio di foreign fighters, beni alimentari, armi e finanziamenti attraverso il confine turco-siriano, si è nel tempo avvicinata politicamente ed economicamente a Mosca, soprattutto dopo l’acquisto del sistema missilistico S-400. E il ritiro delle truppe americane le ha dato l’occasione di invadere il nord-est siriano in mano, appunto, ai curdi.
Adesso, con Ankara in contrasto con il blocco occidentale di cui, almeno sulla carta, fa ancora parte, e l’abbandono dei curdi al loro destino, la coalizione a guida Usa ha diminuito la propria presenza e il proprio peso nel Paese. Con il Free Syrian Army e quel fronte costituito da una nebulosa di gruppi estremisti che, dall’operazione che ha portato all’occupazione di Afrin, nel 2018, si è ormai schierato al fianco di Ankara.