Per 9 anni, dal 1959 al 1968, fu il maestro catodico per i molti italiani che, in pieno boom economico, ancora non avevano raggiunto il traguardo fondamentale, imparare a leggere e a scrivere. Ma Alberto Manzi, l’insegnante elementare nato a Roma nel 1924 e morto nel grossetano, a Pitigliano, nel 1997, non fu solo questo. Docente per oltre 30 anni presso la scuola capitolina Fratelli Bandiera, fu un innovatore della didattica e portò il suo metodo – studiato anche ad Harvard – fin dall’altra parte del mondo, in America Latina, dove rischiò di diventare obiettivo dei regimi dittatoriali di quell’area.

Ora tutto questo sta diventando il cuore di una fiction, “Non è mai troppo tardi”, dal nome della trasmissione mandato in onda dalla RAI e che aveva per sottotitolo “Corso di istruzione popolare per adulti analfabeti”. E tra coloro che hanno contribuito a questo risultato c’è un pedagogista bolognese, Roberto Farné, vice direttore del dipartimento di scienze per la qualità della vita dell’Alma Mater. Fu Farné infatti che lo intervistò nel 1997, qualche mese prima che Manzi morisse, per un libro, “Buona maestra tv. La Rai e l’educazione. Da ‘Non è mai troppo tardi’ a ‘Quark’”, uscito nel 2003 per Carrocci, e che lo rese protagonista unico in un testo successivo, “Alberto Manzi. L’avventura di un maestro”, uscito nel 2011 per i tipi di Bononia University Press.

Il primo libro nacque come progetto di ricerca all’interno dell’attività accademica di Farné, che molti anni dopo è stato colui che ha collaborato alla realizzazione della miniserie televisiva e che oggi ricorda “quell’intera giornata del maggio 1997 trascorsa a parlare con Manzi. Il quale rievocò un po’ tutta la sua storia di insegnante. Una storia che andava nel oltre ‘Non è mai troppo tardi’”.

Un grande insegnante, Alberto Manzi, nella cui biografia si rintracciano anche aspetti poco noti ai più, come il capitolo sudamericano.

“Il capitolo sudamericano è stata la vera sorpresa per me. Dopo quella prima e lunga intervista, avrei voluto tornare per approfondirlo, ma non mi fu possibile perché la sua malattia si aggravò e nel dicembre 1997 morì. Tuttavia, nell’occasione in cui lo incontrai, già raccontò che dalla metà degli anni Cinquanta e fino alla metà dei Settanta, ogni anno aspettava le vacanze estive per trascorrere un mese abbondante nell’area andina dell’America Latina dove svolgeva un lavoro di educatore e alfabetizzatore. In sostanza insegnava a leggere e a scrivere a campesinos, indios e analfabeti. Per questa attività aveva come punto di riferimento un gruppo salesiano, in particolare don Giulio Pianello, che fu un suo amico fraterno a lungo”.

 Come iniziò quel periodo in America Latina?

“Manzi mi disse che nel 1956 andò per la prima volta in Brasile per studiare un certo tipo di formiche. Era laureato in biologia, oltre che in pedagogia, e in quegli anni ottenne una borsa di studio per compiere quella ricerca. Quando fu lì, però, si accorse che lì c’erano uomini prigionieri della loro condizione di analfabeti, impossibilitati a iscriversi ai sindacati o a votare. Inoltre chi insegnava loro a leggere e a scrivere veniva picchiato e perseguito in alcuni casi fino alla morte. A me raccontò che questo aspetto lo interessava molto più della vita delle formiche decidendo di dedicarsi ai diseredati di quella zona”.

Non rischiò anche lui?

“Sì e nell’ultimo periodo, negli anni Settanta, partecipò anche ad azioni particolarmente importanti sul piano politico e sindacale correndo non pochi pericoli. È proprio questo l’aspetto che avrei voluto approfondire, ma Manzi morì. Una fonte diretta di quell’arco di tempo rimane la moglie, che mi confermò quanto mi aveva anticipato lui, costretto proprio a metà di quell’ultimo decennio latino americano a rinunciare ai viaggi nelle aree andine. Infatti non gli concessero più i visti d’ingresso e se fosse rientrato laggiù poteva essere imprigionato, se non peggio. Tutto ciò è stato da lui descritto nei suoi tre romanzi sudamericani, ‘El loco‘, ‘La luna nelle baracche‘ ed ‘E venne il sabato‘, quest’ultimo da noi del Centro Alberto Manzi pubblicato postumo perché nell’archivio avevamo il suo dattiloscritto. In quelle pagine si ricostruisce ciò che lui vide e fece in quegli anni. In altre parole i tre libri sono una trasposizione letteraria che descrive una realtà profondamente vera, non il frutto della fantasia di uno scrittore”.

Tutto questo ora si sta tramutando in una fiction. Di cosa si tratta?

“Il produttore, Angelo Barbagallo, sta lavorando a una mini fiction in due puntate. Il regista è Giacomo Campiotti e ad interpretare il maestro è l’attore Claudio Santamaria. Inoltre so che si è a buon punto con i lavori. A novembre 2012 abbiamo fatto a Modena una mostra su Manzi, mostra accompagnata da un convegno sull’educazione scientifica, oltre che dalla quarta edizione del premio Alberto Manzi per la comunicazione educativa. In quell’occasione lo stesso Barbagallo ha comunicato ufficialmente l’approvazione da parte della Rai del progetto per la serie televisiva”.

L’insegnamento di oggi che eredità ha ricevuto da Manzi?

“Lui fu un insegnante che va ricordato fra i grandi innovatori della cultura pedagogica e didattica del nostro Paese insieme a don Lorenzo Milani, Gianni Rodari e Mario Lodi, figure tra loro contemporanee perché nacquero tutte fra il 1920 e il 1925. Se dovessi indicare uno fra i contributi più importanti di Manzi, direi che è rappresentato dall’educazione scientifica, quella che lui riteneva il grande punto debole della nostra scuola e a cui si dedicò con una particolarissima attenzione dal punto di vista della qualità della didattica e dell’innovazione del linguaggio nell’insegnamento della scienza”.

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