Un quarto del territorio nazionale e il 40% delle aree boschive: è ciò che la Liberia, polmone verde africano, ha ceduto a compagnie private. Il tutto solo negli ultimi due anni. A rivelare queste cifre da record è il rapporto Signing their Lives away. Che, inoltre, denuncia i pesanti effetti dello sfruttamento delle foreste vergini da parte delle multinazionali che se ne sono impossessate. Pronte, avverte lo studio, a sfruttarne il legname lasciando alle comunità locali “meno dell’1% del suo valore”. Ma non è tutto: gran parte di queste terre sono state vendute con scappatoie legali che, permettendo di evadere le tasse, hanno creato enormi voragini nelle casse statali liberiane. Ora, però, la presidente della Repubblica e premio Nobel per la pace Ellen Johnson Sirleaf, ha sospeso il capo dell’Autorità per lo sviluppo forestale ed avviato un’indagine indipendente.

Il patrimonio forestale del Paese più verde d’Africa è in grave pericolo. Colpa dell’irrefrenabile land grabbing (l’accaparramento della terra, ndr) che ha preso di mira il continente nero, ma anche di una scellerata gestione del territorio. Secondo le associazioni autrici dello studio Global Witness, Save My Future Foundation e Sustainable Development Institute, dal 2010 a oggi è stata infatti svenduta a privati quasi la metà delle foreste nazionali. Una situazione preoccupante di per sé, secondo il co-autore del rapporto Jonathan Gant, che “diventa ancora più allarmante quando si guarda a chi le foreste sono state date”: compagnie del legno come il gigante malesiano Samling, già coinvolto in Cambogia, Guyana e Papua Nuova Guinea in scandali legati alla deforestazione illegale.

Come si è arrivati a un fenomeno del genere? Secondo gli autori dello studio la risposta ha un nome: Private use permits (Pup), licenze per sfruttare le risorse naturali liberiane rilasciate generalmente senza consultare le popolazioni locali, e spesso attraverso la falsificazione di documenti. Una situazione ormai fuori controllo, che sta minando alla base la leadership di Ellen Johnson Sirleaf, già da mesi alle prese con gli elevati livelli di inefficienza e corruzione del suo governo. Ex economista della Banca Mondiale, premio Nobel per la pace nel 2011 e prima donna nera al mondo eletta come capo di Stato, la presidente ha incaricato un organismo indipendente di investigare sul rilascio dei Pup, avviando allo stesso tempo una massiccia offensiva contro le dilaganti storture delle istituzioni liberiane. Un impegno che l’ha portata addirittura a rimuovere dal suo incarico il vice-governatore della banca centrale: suo figlio Charles Sirleaf, colpevole di non avere dichiarato i propri beni alla Commissione anti-corruzione nazionale (due degli altri figli della Johnson Sirleaf, invece, detengono ancora posizioni di governo).

Una disfatta a livello ambientale, sociale e politico, quella che sta vivendo la Liberia. Soprattutto se si considerano gli sforzi fatti negli ultimi anni non solo dal governo, ma anche dalle Nazioni Unite e da donatori che, sborsando oltre 30 milioni di dollari, hanno cercato di limitare la deforestazione in un Paese in cui, proprio con l’esportazione del legname, si è finanziata una guerra civile durata dal 1989 al 2003: quattoridici terribili anni, in cui sono morte oltre duecentomila persone. La possibilità di non avere più foreste da sfruttare di qui a poco tempo sta generando dunque un’inquietudine che ha radici in un passato di sangue, guerre fratricide e sfruttamento. Lo sa bene la Liberian Timber Association, associazione di categoria che da tempo presenta reclami al Senato e alla Corte Suprema. “Le recenti dichiarazioni del presidente Johnson Sirleaf sono promettenti, ma la risposta di questa Associazione è una grande preoccupazione”, ricorda Silas Siakor del Sustainable Development Institute: “Troppo spesso coloro che hanno abusato delle risorse naturali della Liberia non sono stati chiamati a rispondere delle loro azioni”. 

Il rapporto Signing their Lives away

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