La programmazione di una manifestazione artistica è “espressione di una libertà garantita dalla Costituzione”. E quindi non riceverà alcun risarcimento danni morali il cittadino cattolico che nel 2007 non aveva tollerato la partecipazione alla sezione danza della Biennale di Venezia del balletto “Messiah Game“, una rilettura in chiave sadomaso della Passione di Cristo. Lo ha deciso la Cassazione, aggiungendo che, in uno Stato laico, nessuno può chiedere a un direttore artistico di ‘inibire‘ le rappresentazioni “sospettate di offendere il sentimento religioso di qualcuno”.

La Corte ha respinto, con condanna al pagamento di 13.200 euro di spese giudiziarie, il ricorso di Ivone Cacciavillani, cittadino cattolico che sosteneva che quella performance, che lui non aveva nemmeno visto, fosse gravemente offensiva “del comune sentire medio del cittadino cattolico, oltre che lesiva del diritto di libertà religiosa (…) e del suo personale sentimento religioso”. Ma la Cassazione ha escluso che “l’organizzazione di uno spettacolo artistico possa di per sé costituire violazione del personale sentimento religioso di un singolo cittadino”. E quindi non può esserci alcun risarcimento, non solo perché un collegamento “oggettivo e diretto” tra spettacolo e sentimento religioso è “insussistente“, “ma anche perché non è ravvisabile il requisito del danno ingiusto, essendo la programmazione di una manifestazione artistica (a cominciare dall’invito a partecipare inoltrato agli artisti) espressione di una libertà garantita dalla Carta costituzionale“.

“Il principio di laicità dello Stato – hanno detto i giudici – comporta equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le confessioni religiose, e dunque il dovere di garantire, rimanendo neutrale ed imparziale, l’esercizio delle diverse religioni, culti e credenze, e di assicurare la tolleranza anche nelle relazioni tra credenti e non credenti”. Hanno così respinto la tesi di Cacciavillani, che aveva protestato perché a suo avviso la Fondazione Biennale svolge una funzione pubblica, e quindi lo Stato aveva sbagliato ad aver “invitato quello spettacolo” a vantaggio di chi “non credendo ama irridere chi crede” e in violazione di “chi crede e di chi non crede”.

Ma “l’invito a partecipare alla Rassegna – si legge nel verdetto – costituisce una parte dell’attività organizzativa degli eventi culturali di competenza della Fondazione ed è il frutto della valutazione del contenuto artistico che i dirigenti e gli organizzatori possono compiere in piena libertà“. Tra i “principi fondamentali della Repubblica”, conclude il verdetto, ci sono la promozione e lo sviluppo della cultura, la libertà dell’arte e della scienza; quindi “sono pienamente consentite le manifestazioni artistiche e scientifiche, che possono svolgersi senza dover subire condizionamenti o indirizzi di sorta”.

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