“Non abbiamo paura. E l’America è sempre stata più forte quando è stata unita”. E’ un messaggio che guarda al futuro quello che Hillary Clinton ha lanciato dal palco della Convention democratica di Filadelfia nel discorso conclusivo con il quale accetta “con umiltà, determinazione e sconfinata fiducia la vostra nomination a presidente degli Stati Uniti”. Ma quello a cui guarda l’ex segretario di Stato è un futuro molto diverso rispetto a quello tracciato da Donald Trump – “che vuole farci passare da morning in America a midnight in America” ha detto Clinton. L’America che vede Hillary Clinton non rinasce dalle ceneri, non si affida a “uomini della provvidenza”. Non costruisce muri né rifiuta le verità della scienza; non si accanisce contro una particolare fede religiosa né semina intolleranza. E’ l’America che ha come motto e pluribus unum, che dai molti riesce a creare l’uno; che continua a ispirarsi a quello che, in tempi molto più difficili, disse Franklyn Delano Roosevelt: “L’unica cosa di cui avere paura è la paura stessa”. Soprattutto adesso che il Paese è “ancora una volta davanti alla resa dei conti”.

Dal palco di Filadelfia, Hillary Clinton ha confermato le caratteristiche politiche che le vengono riconosciute da anni: quella di essere un “falco progressista”, fautrice di una politica interna riformistica, soprattutto in tema di sanità, diritti delle donne, integrazione razziale; sostenitrice di una politica estera di potenza, di un esercito forte, di una visione interventista dell’America nel mondo. In questa occasione sono venuti accenti diversi, rispetto al passato: un richiamo molto forte alla necessita di una maggiore eguaglianza economica; la scelta di contenere Wall Street e privilegiare sempre e comunque Main Street; la volontà di liberare gli studenti – quindi gli americani di domani – dal peso dei debiti. Rispetto al passato, c’è stato un deciso e convinto appello a introdurre una legge sulla limitazione alle armi. E c’è stato, soprattutto, un attacco senza pietà contro Donald Trump.

Hillary Clinton ha cominciato col riconoscere che la nazione si trova in un momento difficile: “L’America è ancora una volta davanti alla resa dei conti. Forze potenti minacciano di distruggerci. Legami di fiducia e rispetto sono sempre più fragili. E come avvenne già per i nostri padri fondatori, non c’è garanzia di futuro”. L’unica soluzione, ha spiegato Clinton, è tornare a quell’unità che ha segnato l’America nei momenti più difficili. Qui è arrivato il primo attacco vero a Donald Trump che, invece di riconoscere “il lavoro di medici, agenti di polizia, insegnanti, lavoratori”, dice: Fidatemi di me. Metterò tutto a posto io”. Ma “gli americani non dicono: metto a posto tutto io. Dicono: mettiamo a posto le cose insieme”, ha scandito Clinton.

Dopo il riferimento a un suo libro del 1996, che si intitolava proprio It Takes a Village, ci vuole un villaggio, Clinton ha ricordato la sua storia: segretario di stato, senatore dello Stato di New York, prima ancora First Lady. E’ stato, questo, il momento in cui ha ricordato le sue origini, il fatto che il nonno ha lavorato per 50 anni nella stessa fabbrica di Scranton, che “nessuno della mia famiglia ha mai avuto il nome su qualche palazzo”. Questa sezione del discorso ha avuto lo scopo di ovviare a uno dei limiti più forti della nominata democratica: quello di non trasmettere un’immagine sufficientemente calda di se stessa, quello di non riuscire di legare la politica, le strategia politiche, a una visione più larga ed esistenziale. C’è stato il riferimento alle sue origini religiose metodiste; e alla madre, che le ha sempre detto di “non soccombere ai bulli”. Rispetto al passato, Clinton è sicuramente riuscita a far passare una dimensione più emotiva e personale del suo fare politica. Ma il suo discorso è rimasto lontano dal calore che proprio qui alla Convention hanno portato Michelle e Barack Obama, Bernie Sanders o Corey Booker. La comunicazione resta, al momento, il suo limite più grande.

E’ quindi arrivato uno dei momenti più importanti del discorso: quello che ha cercato di rispondere alle ansie, soprattutto economiche, degli americani. “So che alcuni di voi sono furiosi”, ha detto Clinton. “E avete ragione”. Dopo il riconoscimento dei meriti della presidenza Obama, che ha ridotto la disoccupazione, Clinton ha detto che “nessuno può essere soddisfatto con lo status quo. Stiamo ancora affrontando problemi che si sono sviluppati molto prima della recessione e che sono rimasti nonostante la ripresa”. Clinton ha detto che nei suoi primi cento giorni come presidente degli Stati Uniti, vuole lavorare con il Congresso per far passare il più importante piano di investimenti sul lavoro dalla seconda guerra mondiale. “Lavori nell’industria, nell’energia pulita, nella tecnologia e nell’innovazione, nelle infrastrutture e nella piccola impresa”. Con un accenno esplicito a Sanders (che subito dopo il discorso ha twittato le congratulazioni a Hillary Clinton per lo storico traguardo raggiunto), Clinton ha detto di pensare al college gratuito per la middle-class e all’ampliamento dell’assistenza sanitaria per le classi più deboli.

Se il tema delle riforme interne è apparso ispirato a un progressismo che l’entrata in politica di Bernie Sanders ha reso più radicale e impellente (fortissimo, il più forte mai pronunciato da un nominato alla Casa Bianca, è stato l’appello a limitare la vendita delle armi: “Americani, nessuno vi vuole levare il Secondo Emendamento. Voglio solo evitare che la gente vi ammazzi per strada”, ha detto Clinton), il capitolo sulla politica estera è stato quello che ha riportato in auge la visione di un’America interventista, forte militarmente e “guardiana del mondo”. “Chiunque legga oggi le notizie può capire le minacce e le difficoltà che ci stanno davanti – ha spiegato Clinton -. Da Bagdad a Kabul, da Nizza e Parigi a Bruxelles, da San Bernardino a Orlando, abbiamo a che fare con nemici determinati che devono essere sconfitti”. Mentre una parte della sala la contestava – quella dove erano sistemati I delegati di Sanders -, Clinton si è rappresentata come una leader capace, una commander-in-chief esperta, capace di offrire soprattutto una guida solida. “Sconfiggeremo l’Isis – ha detto – colpendo i loro santuari con attacchi aerei”. Dopo essersi detta orgogliosa del lavoro fatto per arrivare a un accordo diplomatico sul nucleare iraniano, Clinton ha ribadito una visione internazionale basata sulla Nato e sulla priorità dell’alleanza con Israele.

Uno dei temi che hanno percorso il discorso è stato ovviamente il rifiuto della visione e della candidatura di Donald Trump (che in un tweet ha liquidato il discorso di Clinton come “un’insultante collezione di cliché e di retorica riciclata”). Clinton ha dipinto Trump come un demagogo, capace di giocare su Twitter ma pericoloso nel momento in cui dovrà gestire l’arsenale nucleare americano. Clinton ha rappresentato Trump come un personaggio incapace di capire che “l’America è buona”, un Paese che non alza muri e non discrimina sulla base della religione. Poi è venuta la linea d’attacco che sarà quella probabilmente più usata da Clinton e dai suoi (per lei, in campagna elettorale, si spenderanno Barack Obama, Bill Clinton, Joe Biden, Michael Bloomberg, molto probabilmente anche Bernie Sanders) nei prossimi mesi. E cioè, “Trump pretende di difendere i lavoratori americani. In realtà, fabbrica le sue cravatte in Messico, i suoi mobili in Turchia…” L’affermazione è ovviamente destinata soprattutto a quel mondo di working-class bianca degli Stati del Sud e della Rust Belt che Trump cerca di conquistare con le prese di posizione contro i trattati di commercio internazionali.

Per concludere, è stato un discorso che sicuramente non ha offerto un’immagine particolarmente nuova di Hillary Clinton. Più che sulla fiducia, che spesso gli americani sono stati restii ad accordarle, Clinton ha preferito puntare sulla fede nelle sue capacità di leader solida e preparata. In linea con la campagna che i democratici faranno quest’autunno, Clinton ha insistito sul tema della speranza e dell’ottimismo. Together, insieme, è stata la parola più ripetuta; e la sua visione è parsa fondarsi sui concetti di stabilità, continuità, solidità, riforma. Qualcosa sicuramente di molto meno roboante e rivoluzionario rispetto all’offerta di Trump; qualcosa in sintonia con un’America “che deve ripensare, e riflettere, su se stessa”.

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