Nel 2011 era un pallino dei leopoldini, poi un cavallo di battaglia di Matteo Renzi: “Aboliremo le Camere di Commercio”. Dopo annunci, repentine accelerazioni e brusche frenate solo sei enti camerali su 105 sono scomparsi, in realtà “accorpati” con altri. Ne restano in piedi ancora 99 e il nodo della riorganizzazione del sistema camerale arriva al pettine tra molte incognite e nuove polemiche. Il governo sembra infatti deciso a portare in Consiglio dei Ministri la riforma del comparto rimasta a lungo a bagnomaria. Si tratta del decreto che attua uno degli articoli più tormentati della riforma Madia, quello che dispone il riordino degli enti più piccoli disseminati lungo lo Stivale: entro 90 giorni dalla pubblicazione del provvedimento quelli con meno di 75mila imprese iscritte dovranno accorparsi facendo scendere il numero complessivo a 60. In realtà ci sarebbe tempo fino al 10 di agosto ma, con le ferie alle porte, restano a disposizione un paio di date di cui l’esecutivo vorrebbe approfittare, prima che la delega scada. Forse al pre-consiglio di giovedì 28 luglio, da ratificare l’indomani in Cdm.

Da Bolzano a Palermo però è già un ribollire di malumori, tensioni sindacali e proclami dei vertici in carica per resistere all’ineluttabile. Temono di perdere i dipendenti, la poltrona, i poteri e i privilegi di un’autonomia su cui si sono innestate negli anni non poche occasioni di spreco. In vero la marcia di Renzi sulle CamCom s’era interrotta già sulla questione dei contributi obbligatori che le imprese sono tenute a versare per l’iscrizione al Registro delle Imprese e per un sistema di servizi la cui utilità ed efficienza sono da tempo oggetto di critiche. “Abolizione, abolizione!”, era il refrain. Poi resistenze insormontabili e mediazioni ai tavoli istituzionali (Parlamento, Mise e Funzione pubblica) hanno lasciato quell’impegno a metà del cammino: l’obolo alle Camere è stato ridotto progressivamente (del 35% nel 2015, del 40% per quest’anno e del 50% per il 2017). Ma anche a regime le imprese verseranno una “tassa” da 400 milioni di euro. E nel frattempo la partita del “riordino” era come finita nell’ombra.

Lo spettro dei tagli per mille posti – A riaccendere i riflettori sul provvedimento è stata una nuova bozza del testo (scarica), diversa da quella presentata a gennaio, che prevede una sforbiciata agli organici degli enti che contano 7.500 dipendenti pubblici, più 3mila con contratto privato nelle aziende speciali. Il testo riformulato (art. 3 comma 4) indica un taglio di “almeno il 15% del personale in servizio” in fase di accorpamento e di un altro “25% di quello che svolge funzioni di supporto in tutte le camere interessate dagli accorpamenti”. Tradotto: mille posti subito, molti altri quando la riforma sarà a regime, grosso modo sei mesi dopo l’entrata in vigore del decreto. Dal governo non sono arrivate smentite, conferme o rassicurazioni.

I sindacati sono già in allerta, minacciano scioperi e interruzione dei servizi alle imprese. Martedì Renzi era in Molise, i dipendenti dell’ente locale lo hanno contestato anticipando, di fatto, le proteste. Al Governo ricordano che la delega del Parlamento assicurava l’integrità del personale assunto, con riduzioni fisiologiche da conseguire tramite il blocco delle assunzioni e il ricorso eventuale alla mobilità. “La bozza di decreto sul riordino appare come l’ennesimo taglio lineare al personale e al finanziamento del sistema camerale messo in atto da Renzi”, accusa Gilberto Gini, dell’USB P.I. Enti Locali. “Sarebbe inaccettabile per i lavoratori e per il tessuto produttivo locale. Siamo pronti ad una mobilitazione durissima”, avvertono, tra gli altri, i segretari di Fp Cgil, Cisl Fp e Uil Fpl Marche, aggiungendo in una nota che, “con i tagli paventati, il sistema viene letteralmente affossato”. In UnionCamere, organo politico delle camere di commercio, vige la consegna del silenzio, trapela al più qualche vaga rassicurazione: “Il testo non è definitivo e il personale in riduzione sarà quello fisiologico”. Che non sia così pacifico lo dimostra il fatto che i segretari generali mandino mail al personale dipendente per rinfrancarli sulla capacità di pagare gli stipendi a breve e medio termine, nonostante le riduzioni imposte per legge.

Sei fusioni in due anni. Di questo passo ne servono 20 – Qualcuno, forse non a torto, li considera una forma di ritorsione per la mancata riduzione degli enti, vicenda surreale che – in ultimo – finirebbe per costare il posto a incolpevoli lavoratori. E’ andata così. In onore al principio di autonomia che le fonda, le Camere avevano ottenuto dal governo una specie di moratoria per “riformarsi da sole”, dando vita ad accorpamenti spontanei. Siccome però siamo in Italia, ognuna ha finito per fare da sé e molte non han fatto proprio nulla: pochi hanno anticipato i contenuti della riforma per governare il processo di fusione senza traumi di governance (in pratica, assicurando poltrone ai contraenti dell’unione camerale) e molti sono saliti sulle barricate nella speranza di passare la nottata. In mezzo, manco a dirlo, politici e potentati locali a far pressing sui ministeri per veder soddisfatte le doglianze dei propri territori d’elezione. Risultato: finora da 105 Camere si è scesi a 99. Sei in meno in due anni, di questo passo non ne bastano 20 per arrivare alle 60 auspicate. Il nodo però ora viene al pettine: 90 giorni dopo l’entrata in vigore del provvedimento gli enti sotto dimensionati, quasi la metà, dovranno unirsi in forza di legge.

Fusioni, ma soprattutto confusioni – La mappa delle fusioni andate in porto, o meglio deliberate, è presto fatta: Venezia e Rovigo, Isernia e Campobasso, Grosseto e Livorno, Avellino con il Sannio, Monza e Milano. Proprio quest’ultima operazione da la misura dell’isteria che accompagna alcune i matrimoni in corso. Con 90mila imprese iscritte la Camera brianzola poteva anche restare autonoma. Così facendo però sarebbe rimasta ventesima per dimensioni, mentre l’associazione può portare benefici dimensionali che i vertici dell’ente non hanno trascurato. Allearsi, dunque: ma con chi? Pochi giorni fa, dopo non poche frizioni, i vertici hanno dato disco verde alla fusione con Milano, tornando alla casella di partenza. Proprio da lì era nata, nel 2007, quando è stata istituita la Provincia di Monza e Brianza.

Fatta l’operazione, viene subito avversata. Per il presidente della Provincia di Monza Gigi Ponti è “una scelta grave che compromette la competitività della Brianza” sostiene, dando voce a chi teme la fagocitazione, di diventare il piccolo ingranaggio di un motore da 550mila imprese. Sponsorizzava l’accorpamento con Lecco che avrebbe dato vita a un ente con 130mila imprese. Le grandi manovre per il derby hanno visto scendere in campo parlamentari, associazioni industriali e sindacati locali. E alla fine si è tornati all’inizio: Monza e Milano, ancora insieme. E non è detto che sia davvero finita. Non mancano infatti casi di nozze celebrate e revocate, come in Sicilia. Sull’Isola il riordino doveva ridurre gli enti da nove a quattro ma l’unico che ha iniziato l’iter pensa a tornare indietro: Siracusa due anni fa aveva deliberato l’accorpamento con Ragusa e Catania. Ora c’è chi preme per rimangiarselo. E chissà chi la spunta.

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