E’ lui. Il testimone chiave del caso Alpi, Ahmed Ali Rage, detto Gelle, corrisponde al somalo intervistato da Chiara Cazzaniga per Chi l’ha visto lo scorso febbraio. La Procura di Roma ha ricevuto la prima risposta dai periti, che hanno comparato la foto del cartellino segnaletico con i fotogrammi del servizio andato in onda su Rai 3, dove Gelle affermava di aver testimoniato il falso, in cambio di soldi e del visto per l’Italia. I magistrati romani hanno quindi già inviato, nei giorni scorsi, la richiesta di rogatoria internazionale per il Regno Unito, fascicolo che ora è in mano al ministro della giustizia Andrea Orlando. Un passaggio chiave, dove il fattore tempo sarà cruciale. Potrebbe essere questa la svolta nelle indagini sull’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi da un commando di sette persone il 20 marzo 1994.

Il 10 ottobre 1997 l’ambasciatore Giuseppe Cassini – inviato nel corno d’Africa dall’allora vice presidente del consiglio Walter Veltroni – portò in Italia il somalo Ahmed Ali Rage, che, interrogato dalla Digos di Roma prima e dal pm Franco Ionta poi, accusò Hashi Omar Assan di aver fatto parte del gruppo di fuoco autore dell’agguato. Il testimone somalo – gestito direttamente dal ministero dell’Interno – lasciò l’Italia poco prima della fine dell’anno, sparendo prima dell’arrivo in Italia dell’uomo che aveva accusato. Hashi Omar Assan – inserito in una lista di vittime delle violenze dei militari italiani e portato in Italia con il pretesto di testimoniare davanti alla commissione Gallo – il 12 gennaio 1998 viene arrestato, con l’accusa di omicidio. Gelle – così è conosciuto il testimone nella comunità somala – non deporrà mai davanti ai giudici, diventando irreperibile, con una fuga troppo organizzata per sembrare spontanea.

Nel 2002 la condanna a 26 anni carcere per Hashi Omar Assan diventa definitiva. La notizia circola rapidamente anche sui canali televisivi internazionali. Gelle decide, a quel punto, di chiamare un giornalista somalo della Bbc, Sabrie, raccontando di aver mentito in cambio di soldi. Solo qualche anno dopo la Procura di Roma aprirà un fascicolo per calunnia nei suoi confronti, che si chiude, nel 2011, con l’assoluzione: non era stato possibile verificare la sua identità, non esistendo nessuna deposizione registrata utile per comparare la voce.

Ufficialmente già dal 2007 gli investigatori della Digos di Roma avevano un delega per rintracciare Gelle, ma ogni tentativo si dimostra inutile. Nel marzo del 2014 va in onda su Rai 3 un’intervista con la moglie di Gelle, rintracciata nella sua residenza di Birmingham. Gelle in quel momento non era lì, ma la pista era giusta. Il cerchio – quello giornalistico – inizia a stringersi. Per diversi mesi la redazione di Chi l’ha visto lo cerca, fino ad arrivare ad intervistarlo lo scorso febbraio. L’immagine di Gelle già a prima vista appare sostanzialmente identica a quella ritratta nei cartellini segnaletici conservati negli archivi della Procura di Roma e le sue parole confermano, punto per punto, quello che già aveva raccontato per telefono nel 2002: la sua testimonianza era falsa, non aveva assistito all’agguato, Hashi non c’entra nulla e qualcuno lo aveva convinto promettendo soldi e un visto per l’Italia.

La sua testimonianza potrà ora portare alla revisione del processo nei confronti di Hashi Omar Assan, detenuto a Padova da 16 anni. Ma soprattutto potrebbe essere la chiave di volta per identificare chi ha manipolato la sua versione, chi lo ha pagato per dire il falso e chi lo ha aiutato a fuggire dall’Italia prima di testimoniare davanti ai giudici. Scoprire chi ha depistato è la via maestra per risolvere quello che appare sempre di più un intrigo di Stato.

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