Nemici fino a ieri, da oggi possibili alleati. Mentre a Washington si considera la possibilità di estendere in Siria i raid aerei in atto in Iraq, la Siria si dice pronta a cooperare con la comunità internazionale, compresi gli Stati Uniti, nella lotta contro il terrorismo. Lo ha annunciato il ministero degli Esteri Walid al-Moallem durante una conferenza stampa a Damasco in cui ha precisato di rispettare la risoluzione Onu che prevede sanzioni contro i gruppi jihadisti in Siria. La dichiarazione di al-Moallem segna il primo commento pubblico da parte di un alto funzionario del governo di Bashar al Assad sulla minaccia dello Stato islamico, che ha conquistato vaste aree di territorio iracheno e siriano. 

Il capo della diplomazia siriana ha messo in chiaro che Damasco sarebbe d’accordo con azioni militari, “anche della Gran Bretagna e degli Usa” sul proprio territorio contro l’Isis, ma solo con “un pieno coordinamento con il governo siriano”. Attacchi aerei in Siria contro i militanti dello Stato islamico senza il consenso di Damasco “sarebbero considerati come una grave violazione della sovranità siriana e come un’aggressione”, ha dichiarato il ministro. Muallem è tornato poi sul fallito blitz delle forze speciali Usa per liberare il giornalista James Foley, poi ucciso dall’Isis: “Vi assicuro che se ci fosse stato un coordinamento tra gli Usa e il governo siriano, l’operazione non sarebbe fallita”.

 “Nessuna decisione sul possibile avvio di un’azione militare in Siria”, riferisce il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest. Gli Stati Uniti si stanno consultando con Regno Unito, Francia, Australia e Canada su come incrementare il proprio impegno contro l’avanzata dell’Isis, condividendo di informazioni di intelligence, fornendo assistenza militare alle forze curde in Iraq e all’opposizione moderata in Siria e valutando, se necessaria, la strada dei raid aerei.

E’ passato appena un anno dalla fase più acuta della crisi tra il regime di Bashar Al Assad e gli Stati Uniti. Diffusosi il sospetto che le truppe governative stessero usando armi chimiche contro i ribelli, Barack Obama il 20 agosto 2013  escludeva un intervento militare nel paese mediorientale ma avvertiva: “L’uso di armi chimiche cambierebbe la mia strategia. Se si passerà questa linea rossa le conseguenze saranno enormi”. Soltanto 11 giorno dopo, il 31 agosto, il capo della Casa Bianca si diceva pronto a chiedere al Congresso l’autorizzazione per un attacco perché “migliaia di persone sono state uccise dal gas dal loro governo e questo atto è un assalto alla dignità umana e alla nostra sicurezza nazionale”. Alla decisione di Obama di passare per il Congresso  il regime esultava. E provocava: l’atteggiamento dell’amministrazione Usa “è diventato ormai oggetto di sarcasmo da parte di tutti”, ironizzava il 1° settembre il vicepremier siriano Qadri Jamil. La risposta di Assad, corredata di una non troppo velata minaccia, arrivava il giorno dopo, il 2 settembre, in un’intervista a Le Figaro: “Il Medioriente è una polveriera – spiegava Assad -, e il fuoco oggi vi sta avvicinando. Non bisogna parlare soltanto della risposta siriana, ma di quello che potrà succedere dopo il primo sparo. Nessuno può sapere cosa succederà. Tutto il mondo perderà il controllo, quando questa polveriera esploderà. Il caos e l’estremismo si diffonderanno ovunque. Esiste il rischio di una guerra in tutta la regione”. 

Anche le Nazioni Unite tornano a far sentire la propria voce. Lo Stato islamico sta conducendo in Iraq “una pulizia etnica e religiosa“. La denuncia è arrivata dall’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Navi Pillay. “Gravi e orribili violazioni dei diritti dell’uomo vengono commesse ogni giorno dallo Stato islamico e dai gruppi armati associati – ha detto in una nota – colpiscono sistematicamente gli uomini, le donne ed i bambini in virtù della loro appartenenza etnica, religiosa o settaria e conducono senza pietà una pulizia etinica e religiosa nelle regioni sotto il loro controllo”.

In Iraq, intanto, dove lo Stato Islamico imperversa, si continua a morire. Almeno 11 persone sono morte in un attacco kamikaze contro una moschea sciita a Baghdad. Lo ha riferito l’emittente al Arabiya. La moschea colpita è quella dell’Imam Ali, situata nell’affollato sobborgo di Nuova Baghdad, nella parte sud-orientale della capitale. Secondo una fonte del ministero dell’Interno iracheno, citata a condizione di anonimato dall’agenzia Xinhua, l’attentatore ha azionato una cintura esplosiva facendosi saltare in area tra i fedeli riuniti per la preghiera di mezzogiorno. Inoltre alcune autobombe esplose in città sciite a sud di Baghdad hanno hanno ucciso almeno 23 persone. Lo fanno sapere fonti ufficiali del governo iracheno.

In Siria i jihadisti sono galvanizzati dall’ultimo successo ottenuto ieri con la conquista della base di Al Tabqa, l’ultima roccaforte lealista nella provincia settentrionale di Raqqa. Una situazione che ha indotto il vescovo caldeo di Aleppo e presidente di Caritas Siria, mons. Antoine Audo, ad invocare l’intervento di “una forza internazionale di pace”, come avevano fatto altri pastori della Chiesa in Iraq nelle scorse settimane. Mentre Papa Francesco è tornato ad invitare alla preghiera “per la fine della violenza insensata” in un messaggio inviato ad una messa di suffragio per il giornalista americano James Foley, ucciso in Siria dai suoi sequestratori dello Stato islamico.

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