Beh, ammetto lo shock iniziale è stato violento. E non perché dal carcere Fabrizio Corona cerchi ancora un po’ di luci della ribalta che devono mancargli parecchio. Ma per la prefazione al suo “Mea Culpa” firmata nientepodimeno che da Franco Bolelli, filosofo pop che scrive di evoluzioni, innovazioni e nuovi modelli antropologici. L’accostamento Corona-Bolelli è tra i più stridenti che si possa immaginare. E’ come suonare l’Aria di Bach sulla quarta corda con violino senza corde. Chiedo a Bolelli: “Ci deve essere un altro motivo, a me oscuro, oltre a quello economico, per il quale ci metti la firma e la faccia? O parafrasando il titolo di un tuo saggio. ci metti il cuore e le palle?”. Bolelli sgombera subito il campo: “Quello economico, proprio no. Mondadori ci ha dato anticipi ridicoli. Ci siamo conosciuti prima che finisse in carcere, ci siamo molto divertiti, mi ha raccontato di volersi liberare dalla immagine che lui stesso si era costruito e di volersi reinventare. E’ stata un’avventura energetica. Il libro è bello davvero, vedrai”. E aggiunge divertito: “Non oso pensare alla reazione dei lettori del Fatto riguardo a Corona!”.

Ecco alcune perle del Corona-pensiero fatto di buoni propositi da ragazzino della quarta media messo in castigo dalla maestra cattiva: “Voglio cambiare dopo una vita sbagliata. Voglio che mio figlio sia orgoglioso di me”.
Non posso andare oltre, mi viene in soccorso Bolelli che difende la sua creatura: “Se questo non fosse un libro di valori e sentimenti forti, e se non nascesse dalla prepotente voglia di Fabrizio di reinventare se stesso e di orientare la sua abbondante personalità verso orizzonti più vasti e più alti, lui non mi avrebbe mai proposto di fargli in qualche modo da coach, né io avrei mai minimamente pensato di farlo. Fabrizio è il primo a essere consapevole di aver dato cattiva prova di sé. E’ così che il passato di Fabrizio mi interessa molto meno del suo presente di mutamento e dei suoi possibili futuri. E certi valori che esprime (lealtà, orgoglio, coraggio, senso di responsabilità, e così via) mi appaiono molto più essenziali e decisivi di certe azioni che ha compiuto o che potrà compiere”.

Ci sono libri e libri. E confesso subito di essere di parte. Sono da sempre una fan di Pietrangelo Buttafuoco, delle sue occhiaie di notti insonni passate a snocciolare parole come rosari. Sono una fan di quella sua aria stropicciata da intellettuale saraceno (sono anche io normanna-borbonica come lui) e della sua prosa barocca, che immortala una Sicilia dagli antichi sapori. I suoi titoli trasudano tutta la carnalità del Sud da “Fimmini“, all’ultimo grido “Il dolore pazzo dell’amore” (sensualissimo) dove al passaggio di una sottana, anche le pietre sudano. Non basterebbe questo per divorarlo?

P.S. Ha ragione Pino Aprile, scrittore e gentiluomo: “Se sei su Dagospia esisti”. Sarà per questo che Plazzola (credo che si chiami Claudio) insiste per ben due volte su Dago con una pruderie da buco della serratura. Ma visto che tira in ballo un mio articolo su ilfattoquotidiano.it (nella rubrica Trash&Chic e non sul blog. Non ne azzecca una!) lo invito a rileggerselo per benino per non cadere in fallo (oops, si può dire?). Prima di insinuare cose non dette e non scritte da me. Sono cadaveri viventi, di un tempo che non c’è più, di un mondo che non interessa neanche all’ultimo dei pasdaran del berlusconismo. E ci stanno addosso come un abito volgare.

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