Estorsioni, intimidazioni, rapine, sequestri di persona, corruzione di uomini delle forze dell’ordine e l’ombra della ‘ndrangheta. Si è aperta a Bologna davanti al gup Andrea Scarpa la maxi udienza preliminare contro 34 persone, 24 delle quali accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso. Il pubblico ministero della direzione distrettuale antimafia Francesco Caleca contesta agli imputati di avere messo in piedi tra il 2007 e il 2011 una organizzazione che gestiva un traffico di slot machine truccate nei locali della Romagna e di altre parti d’Italia, compresa Roma. Oltre alle macchinette l’organizzazione gestiva, secondo il pm, anche diversi siti illegali di scommesse online spesso tramite società con base all’estero. A capo dell’associazione secondo l’accusa c’è Rocco Femìa, calabrese residente da tempo nella zona di Ravenna, tuttora detenuto nel carcere di Piacenza e ritenuto dalla Dda legato alle ‘ndrine calabresi. Se il giudice dovesse accogliere anche l’imputazione di associazione mafiosa, quello che si aprirà a Bologna sarà il più grosso processo antimafia mai celebrato in Emilia Romagna.

Proprio nel corso di questa indagine è emerso che in una telefonata tra Femìa e un faccendiere piemontese, anche lui imputato, Guido Torello, quest’ultimo parlava della possibilità di eliminare il cronista della Gazzetta di Modena, Giovanni Tizian. I suoi articoli, si era lamentato Femìa, stavano mettendolo di malumore: “…’sto giornalista – disse Torello – se ci arriviamo o la smette o gli sparo in bocca e finita lì”. Il cronista si era occupato proprio degli affari di Femìa con le slot machine, deunciandone i legami con la malavita organizzata. Ora Tizian vuole costituirsi parte civile nel processo che si aprirà a Bologna: “Ho tutte le intenzioni di farlo, di mettere la faccia su questa storia: queste persone mi hanno tolto due anni di libertà”, ha spiegato Tizian. Ma il suo appello riguarda tutta la categoria: “Mi piacerebbe coinvolgere l’ordine dei giornalisti, più siamo e meglio è. Dobbiamo essere in tanti a raccontare cosa fanno questi signori”. Tra l’altro, ha aggiunto Tizian parlando con l’agenzia Ansa, “la figlia e il figlio di Femìa (pure loro imputati in udienza preliminare, ndr) sono liberi e la figlia ha aperto a settembre una società di slot. È assurda questa storia”.

La storia della indagine Black monkey, questo il nome scelto dalla Guardia di finanza di Bologna, inizia l’11 gennaio 2011, quando un immigrato nordafricano denuncia di essere stato rapito tra Imola e Borgo Tossignano da tre persone. Tra questi, secondo l’accusa, c’era anche il genero di Rocco Femìa. I tre, puntandogli contro una pistola, lo minacciarono di fare intervenire “mafiosi calabresi, per metterlo apposto”. Da qui la scoperta da parte delle fiamme gialle di un sistema che arrivava fino in Gran Bretagna e in Romania, dove erano state aperte delle società che gestivano il gioco online secondo il diritto di quel Paese.

Ma soprattutto Femìa e la sua organizzazione, secondo gli uomini della Dda di Bologna, commercializzava macchinette con schede truccate così da celare al Fisco l’ammontare reale delle giocate. Per fare questo, l’associazione aveva intrecciato contatti anche con un brigadiere della Guardia di finanza di Lugo di Romagna. Era lui ad avvisare la banda delle possibili ispezioni. Non solo. Un ispettore della polizia di stato di Reggio Calabria procurava a uomini della banda notizie su eventuali indagini a carico dei suoi affiliati. Così, tra minacce di morte con coltelli alla gola a gestori dei locali e a chi non pagava i debiti, secondo gli investigatori, la banda imperversava tra i paesi del ravennate e incassava milioni di euro. Tra le accuse nei confronti dei giovani figli di Femia, Nicolas e Guendalina, anche loro arrestati in un primo momento, ora a piede libero, c’è quella di essersi intestati società e beni per celare il reale proprietario delle fortune del businness, cioè il loro padre

Tra gli imputati per millantato credito in questo procedimento ci sono anche Teresa Tommasi, funzionaria della Corte di Cassazione, Nicola Paparusso, ex carabiniere, scrittore, produttore televisivo nonché consigliere legislativo di Sergio De Gregorio (quando questo era presidente della commissione difesa nella scorsa legislatura) e Massimiliano Colangelo, un faccendiere potentino trasferitosi a Roma pizzicato da una foto del Fatto Quotidiano a passeggio anch’egli con il senatore De Gregorio a Roma nel 2012. Loro promisero a Femìa di riuscire a influenzare la decisione della Cassazione su una vecchia condanna per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga. Ma fu tutto un bluff con cui riuscirono a scucire 100mila euro a Femìa, che non ebbe la sentenza che avrebbe voluto. La prossima udienza davanti al Gup è in programma per il 10 gennaio. All’udienza di mercoledì 18 dicembre erano presenti quasi tutti gli imputati, compreso Femìa e gli altri, una decina in tutto, al momento agli arresti.

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