“Il Consiglio dei ministri ha approvato su proposta del ministro Fabrizio Saccomanni la nomina in via definitiva dei direttori delle Agenzie fiscali”. Con queste scarne parole, venerdì scorso, il governo ha certificato che Attilio Befera resterà per qualche anno sulla comoda poltrona da 1.040 euro che ha acquistato l’anno scorso da Corridi spa. È da lì che il nostro irradia il suo potere sull’Agenzia delle Entrate, su cui regna dall’ormai lontano 2008, ed è sempre da quella comoda posizione che discende il suo nuovo potere sull’Agenzia del Territorio e la presidenza di Equitalia: insomma Befera contemporaneamente accerta, impone e riscuote e ora governerà pure la fondamentale partita della riforma del catasto in una confusione di ruoli e poteri che non ha eguali in Europa. I ministri del Tesoro vanno e vengono, solo “Artiglio” resta imperterrito al suo posto controllando il rubinetto delle Entrate: dei risultati si può discutere, ma è inarrivabile come presenza sui media e rapporto alla pari con i politici.

Il travet bipartisan
Le sue biografie sono scarne, spesso agiografiche: lo “sceriffo delle tasse” è romano, di fede laziale, ha 67 anni, fuma il sigaro, gioca a tennis, ascolta Mozart, legge Camilleri e si incontra tutti i sabato mattina al bar coi tre amici di una vita. Il suo stipendio attualmente corrisponde al tetto massimo per i manager della P.A. (300mila euro l’anno circa), ma per anni è stato più del doppio: l’anno scorso, infatti, ha magnanimamente annunciato che avrebbe rinunciato agli emolumenti di Equitalia anche se non era obbligato. Laurea in Giurisprudenza, primo lavoro in Efibanca, istituto pubblico che agiva da mediatore tra Stato e grandi industrie, arriva al Tesoro nel 1995 come capo del Servizio Centrale degli ispettori Tributari durante il governo Dini, poi nel 1997 Vincenzo Visco lo promuove a capo della riscossione del Dipartimento delle Entrate. Di lì la sua ascesa è inarrestabile fino alla presidenza della neonata Equitalia (2007) e alla direzione dell’Agenzia delle Entrate con Giulio Tremonti. Bipartisan, ovviamente. Qualche incidente mediatico, comunque, il nostro lo ha collezionato: dalla casa da sette vani all’Eur comprata dall’Immobiliare Bilancia per quasi 370mila euro (il 35% in meno del prezzo di mercato secondo le stime Cerved), fino alle assunzioni incrociate di suo figlio al Coni e del figlio del presidente del Coni Pagnozzi a Equitalia. Roba legale, anche se non piacevole.

Tecnici e leggine
Da quattro o cinque anni, ogni autunno Befera annuncia di aver recuperato tra gli 11 e i 13 miliardi di evasione. A parte non scomporre la cifra, per cui non si sa cosa ci sia davvero in quei miliardi, anche l’evasione stimata è sempre la stessa: 120 miliardi almeno. Aumento della fiscal compliance (gente che comincia a pagare le tasse da sola)? Zero, nonostante lui stesso sostenga che sia il suo vero obiettivo. Recupero strutturale di gettito? Poco e niente. Anzi, secondo studi come quello del centro studi Nens, quest’anno l’evasione sull’Iva è di nuovo in rialzo. La strategia del “terrorizziamoli”, vero marchio di fabbrica di Befera, non funziona. Come che sia, l’Agenzia delle Entrate è ormai una funzione della sua persona: l’ha infatti plasmata a sua immagine e somiglianza. Per quanto possa apparire strano, ad esempio, l’ente controllato dal Tesoro non ha mai fatto concorsi per scegliere i propri dirigenti: i vertici vengono nominati a seconda delle preferenze interne. La faccenda non è proprio regolare se è vero che due anni fa il Tar del Lazio ha giudicato legittime solo 376 posizioni dirigenziali su 1.143. Una situazione che ha innescato un grottesco processo per cui gli stessi dirigenti sono stati di nuovo nominati a capo degli stessi uffici e di nuovo censurati dalla magistratura. Mario Monti e Vittorio Grilli hanno provato a metterci una pezza con la solita leggina nel 2012: l’Agenzia farà i concorsi, ma “fatti salvi gli incarichi già affidati”. 

È il governo Monti a segnare il vero trionfo di Befera. In primo luogo d’immagine: la presenza continua sui media, i blitz show nei luoghi di vacanza, le pubblicità anti- evasione, persino un matrimonio pieno di ministri (e finito su Dagospia). Anche dal lato del potere sostanziale non gli è andata male. La contestata fusione tra Agenzia del Territorio e quella delle Entrate consegna ad “Artiglio” un potere enorme: sarà lui, infatti, a gestire la riforma del catasto che allineerà le rendite al valore di mercato. Il problema? Affidare la gestione del catasto alle Entrate significa interpretare il patrimonio immobiliare degli italiani solo alla luce del gettito che ne può derivare. 

Fusioni a perdere
Sull’accorpamento delle agenzie fiscali, per altro, Mario Monti ha speso gli ultimi pezzi del proprio capitale politico approvandolo a colpi di fiducia dopo un voto contrario del Parlamento. L’ex premier parlò di razionalizzare e risparmiare. A bilancio, però, c’è poca roba: 3 milioni di euro l’anno tra taglio delle poltrone e – quando e se si farà – nuova pianta organica. Non andrà così: a tacere del caos organizzativo, far traslocare i dipendenti dei Monopoli nell’Agenzia delle Dogane costerà dieci milioni per adeguare gli stipendi (alle Dogane guadagnano di più) e circa 150 di indebitamento per armonizzare i bilanci. Befera, però, ha avuto il catasto e ora la partita ImuTares è anche sua.

da Il Fatto Quotidiano del 31 luglio 2013 

Articolo Precedente

Ligresti, da B. a Mediobanca erano tutti pazzi di don Salvatore

next
Articolo Successivo

Alberto Nagel, rottamatore delle grandi dinastie per garantire un futuro a Mediobanca

next