Lottare contro la povertà in un paese come il Malawi può sembrare un’impresa persa in partenza. Quattordici milioni di abitanti (un numero in continua crescita data l’elevata natalità), di cui il 14% è sieropositivo (secondo l’ultima rilevazione del 2008), malaria e colera ancora diffusissimi e interi villaggi senza acqua corrente ed elettricità: qui il tempo sembra essersi fermato da un secolo. Portare un aiuto concreto ai più poveri è l’obiettivo delle moltissime Ong attive nel paese. Spesso, però, i programmi di intervento delle grandi organizzazioni non corrispondono pienamente alle esigenze della popolazione, dovendo conciliare le istanze degli operatori sul posto con le richieste dei finanziatori. Se ne è discusso anche durante l’ultimo World Economic Forum di Davos, in un panel dedicato proprio al cambiamento di approccio delle grandi Ong, spesso appesantite dalla burocrazia interna e più attente all’accountability, la responsabilità nei confronti dei donatori, che alla loro missione iniziale.

Di fatto, quindi, i progetti più efficaci sono spesso quelli legati alle iniziative personali. Come quelle dei tanti volontari che gravitano intorno alla missione monfortana di Balaka, nel centro-sud del Paese: la casa dei padri missionari è il punto di riferimento per queste persone, che partono dall’Italia con la precisa intenzione di aiutare, e ci riescono benissimo. Come Andrea Rossi, elettricista in pensione di Covo (Bergamo), che da tre anni viene qui in Malawi, da solo o insieme alla moglie Piera Brambilla. Quest’anno i due volontari sono riusciti a completare un progetto a cui lavoravano da anni: portare l’acqua nel poverissimo villaggio di Chaoni, su un altopiano a 2mila metri di altitudine nel distretto di Machinga. A Chaoni si arriva solo a piedi, in due ore di cammino attraverso pietraie e sentieri estremamente impervi, accompagnati da bambini e donne del posto che affrontano la salita portando pesantissimi carichi in bilico sul capo. Fino al primo maggio, gli abitanti del villaggio – dove sorge anche un asilo – dovevano provvedere in questo modo anche al trasporto dell’acqua, che si trovava a cinque chilometri di cammino. Ora, grazie al contributo economico dei Rossi, a Chaoni c’è un pozzo che funziona grazie a un pannello solare, che l’elettricista ha installato di persona. “Per noi conta più l’esempio delle parole – racconta il volontario – e siamo felici di aver portato a termine il nostro lavoro”. Il loro prossimo obiettivo è fornire acqua ed elettricità, con lo stesso sistema, anche all’ospedale che sta sorgendo poco distante.

La storia di Agostino Trussardi, invece, inizia con una tragedia: alcuni anni fa questo tornitore in pensione di Clusone (Bergamo) ha perso nel giro di pochi mesi il figlio e la moglie. “La mia vita sembrava finita”, racconta al fattoquotidiano.it. Per lui la rinascita è passata da Toleza, minuscolo villaggio soffocato dalla polvere della terra rossa. Lì Agostino è riuscito, investendo tutto quello che aveva e cercando instancabilmente fondi in Italia, a costruire un asilo che attualmente ospita circa duecento bambini della zona. La struttura si chiama Chikondi Sukulu ya Mkaka (“asilo dell’amore”, in lingua chichewa) e accoglie bambini da tre a cinque anni, che lì ricevono la prima formazione e soprattutto una nutrizione adeguata. “Ad esempio, a metà mattina – spiega Agostino – i nostri bambini mangiano il Likuni phala, un misto di tre cereali da cui si ricava una pappa molto nutriente”. I bimbi di Toleza sono allegri e attenti, grazie alle cure delle 19 persone che lavorano nell’asilo, tra cuoche, educatrici e operatori. “L’unica cosa che manca ancora è l’energia elettrica”, racconta il volontario: all’asilo si cucina su fuochi di legna, e il collegamento alla linea elettrica è costoso. Ora la nuova scommessa di Trussardi è aprire un piccolo ambulatorio accanto all’asilo: i lavori sono quasi finiti e manca l’autorizzazione del governo, che invierà due infermiere. Per mandare avanti i suoi progetti, il volontario, che ha aperto una Onlus, conta sulle donazioni spontanee e sul contributo di altre persone come lui. “Bastano trenta euro all’anno per dare da mangiare a uno dei miei bambini”, spiega. Perché chi vuole dare in concreto una mano all’Africa non aspetta.

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