Seconda settimana di negoziati sul clima a Doha, Qatar. Mentre gli sherpa continuano a lavorare sui dettagli per la road map del nuovo protocollo globale da firmare entro il 2015 che impegnerà tutti gli stati membri a tagliare le emissioni, va in scena lo scontro sul destino del protocollo di Kyoto 2. Entro il 1 gennaio dovrebbe entrare in vigore il secondo periodo di impegni per ridurre le emissioni di gas serra, che rimarrà in vigore fino al 2018 o 2020. Il problema principale rimane la questione dell’hot air, aria calda. Niente temperature, il termine si riferisce ad un surplus di certificati emissioni emesse nel mercato dell’AAU (Assigned Amount Unit), un sistema di carbon credit nato con il Protocollo di Kyoto.

Lo scenario è chiaro: alcuni paesi dell’ex Cortina di Ferro all’avvio del protocollo di Kyoto hanno ricevuto un numero generoso, troppo generoso, di certificati che dovevano servire per compensare le emissioni delle industrie pesanti e del settore dei combustibili fossili secondo i livelli del 1990. I firmatari di Kyoto infatti hanno degli obbiettivi di riduzione delle emissioni: ad esempio l’Europa dovrebbe ridurre del 20% rispetto al 1990 entro il 2020 (obiettivo per altro già praticamente raggiunto, grazie alle rinnovabili ed alla crisi economica). Questi crediti sarebbero serviti ai paesi dell’Est per come aiuto per raggiungere i propri obiettivi.

A favorire degli AAU Russia, Ucraina e Polonia, i quali tuttavia, successivamente alla crisi post 1989 e alla chiusura dell’industria pesante, con le emissioni sensibilmente diminuite si sono ritrovate con in mano un surplus di 13gigatonnelate di permessi per compensare emissioni di gas serra mai avvenute.

Quindi questi permessi sono di fatto “aria fritta”, poiché appunto si riferirebbero ad obiettivi di riduzione emissioni già raggiunti. Ma per Russia, Ucraina e l’europea Polonia questi certificati “sono validi e possono essere impiegati nel mercato delle emissioni”. Un problema gigantesco, meglio noto come “la falla del Protocollo di Kyoto”. “Se questi certificati verdi venissero commerciati o scambiati nel secondo periodo di impegni di Kyoto2 salterebbero il sistema del mercato emissioni”, spiega Mauro Albrizio, responsabile Politiche Europee di Legambiente.

A sorprendere è sopratutto la Polonia, che puntando i piedi, si allontana dall’Europa per usare “l’hot air” per far pesare la propria posizione nel negoziato, e – si sospetta nei corridoi del convention Center di Doha – per fare cosa gradita alla Russia. La soluzione per risolvere la questione esiste: si tratta della proposta sostenuta da Cina, India, Brasile e Sudafrica di consentire l’uso del surplus sino al 2020 solo per gli ‘usi domestici’ dei paesi interessati: in questo modo i certificati “tossici” non saranno immessi sul mercato. Ma per ora i 3 paesi rimangono convinti sulla richiesta di poter usare i loro carbon credit (il cui valore economico non è irrilevante).

Il ruolo negativo della Russia e della Polonia, sostengono numerosi delegati europei contattati dal Fatto Quotidiano, sta rallentando il negoziato. “Vedremo cosa vorranno i polacchi in cambio della loro concessione a buttare i certificati AAU”, dice un negoziatore che preferisce non usare il suo nome. “La Polonia si è offerta di ospitare il il negoziato del 2013 (a Varsavia, nda) il prossimo anno, dove entrerà nel vivo il negoziato sul nuovo trattato internazionale”, ha spiegato Samantha Smith, addetta politiche climatiche del Wwf durante una conferenza stampa. «I record ambientali sono pessimi. Se vuole essere una sede ospitante degna prossimo negoziato dovrà come minimo accettare di risolvere la questione hot air». Mentre per la rappresentante Wwf Italia a Doha, Mariagrazia Midulla “se i paesi riuniti a Doha vogliono che questo summit raggiunga un risultato tangibile per il clima globale, devono eliminare la possibilità di trasferire questo surplus di AAU nel secondo periodo di Kyoto. Questa dovrebbe essere l’eredità di Doha, o verrà ricordata come una conferenza politicamente a base di aria calda o peggio di aria fritta” conclude Midulla.

Il capo della delegazione brasiliana André Corrêa do Lago si spinge ancora più in là. “Kyoto è importante per continuare il negoziato (anche se coinvolge solo il 15% degli stati per emissioni, nda). Per me è chiaro che se non ci sarà un accordo, molte cose potrebbero bloccarsi”. Minacce diplomatiche, certo, ma pur sempre pesanti.

Cosa succederà dunque alla seconda fase del protocollo di Kyoto? Molti sono fiduciosi che la Polonia tornerà a ragionare e che qualche stato potrebbe cambiare posizione, sopratutto il Giappone che fino a sabato si era detto poco possibilista. Servirà per aiutare il clima? Poco. Vista l’immobilità delle parti la delegazione Ue ha detto che gli impegni per il 2020 rimangono sull’obbiettivo del 20% di riduzione emissioni. Il problema che questo risultato è già stato praticamente raggiunto. L’Australia ha promesso di ridurre del 0,5% (cifra ridicola, secondo le associazioni ambientaliste), mentre il Canada, un tempo un grande supporter del protocollo, dopo la sbornia di petrolio non convenzionale il governo di destra ha detto a chiare parole: “me ne frego”. Ma per le Ong come Wwf e Legambiente bisogna andare avanti, anche se la differenza tra mondo reale e la realtà parallela di questo negoziato continua ad aumentare.

di Emanuele Bompan da Doha

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