“Dopo una attenta valutazione abbiamo segnalato che l’Italia è pronta a unirsi a quelli che vorrebbero la Tobin tax”. Non mancano di sorprendere le parole pronunciate oggi in Senato dal premier Mario Monti che, illustrando i contenuti e le modifiche alla manovra, ha deciso di puntare l’attenzione su una questione già ampiamente dibattuta in sede Ue ma, al tempo stesso, molto spesso trascurata sul fronte istituzionale italiano. In antitesi con la posizione del precedente governo – Berlusconi aveva definito la proposta “ridicola” – l’esecutivo di Monti sarebbe ora pronto ad allinearsi con il fronte franco-tedesco, sostenitore non solo in Europa ma anche al G20 dell’ipotesi di introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie (Ttf).

Sostenuta una prima volta da John Maynard Keynes, e successivamente rielaborata da James Tobindi cui lo stesso Monti è stato allievo a Yale – la tassa si tradurrebbe nell’applicazione di un’imposta molto piccola (si pensa allo 0,05%) su tutte le operazioni finanziarie (valute, azioni, obbligazioni, derivati e altri strumenti) con l’obiettivo di frenare la speculazione e di ridistribuire il ricavato tra le casse pubbliche e i progetti di sviluppo. L’aliquota ridotta avrebbe impatti trascurabili sugli investimenti di lungo periodo penalizzando, al contrario, gli speculatori che, realizzando migliaia di operazioni quotidiane, dovrebbero pagare la tassa su ogni transazione.

Ad opporsi alla proposta, ovviamente, sono soprattutto Stati Uniti e Gran Bretagna, sedi delle due maggiori piazze finanziarie del mondo. Proprio il No espresso da Washington e Londra costituisce oggi il principale problema sulla strada dell’introduzione della tassa. Il timore generale, infatti, è che l’assenza di un accordo globale comporti la fuga degli investitori dai mercati tassati e il loro approdo alle piazze finanziarie dove l’imposta non si applica. Come a dire che l’imposizione di un’aliquota a Parigi e Francoforte finirebbe solo per determinare maggiori guadagni (tax free) per gli operatori di Londra e New York.

Non tutti però sembrano convinti del rischio esodo. In passato, Stephan Schulmeister, docente e ricercatore presso l’Istituto di Studi Economici (Wifo) di Vienna, l’ipotesi dell’applicabilità della tassa in un numero ristretto di Paesi – come i 27 dell’Ue o i 16 di Eurolandia – grazie al cosiddetto “approccio decentralizzato”, ovvero quel sistema fiscale che consente di tassare le transazioni alla fonte, cioè su chi effettua l’operazione. In sostanza, secondo questa visione, ogni volta che effettuano una transazione, nel proprio Paese o all’estero, tutti i residenti delle nazioni che applicano la Ttf sarebbero legalmente debitori della tassa. Un’ipotesi che deve aver convinto la cancelliera tedesca Merkel che in passato, per prima, ha ipotizzato la futura introduzione della Ttf in Eurolandia trovando il sostegno, tra gli altri, dei governi di Francia, Spagna, Austria e Portogallo. Lo scorso anno, la Commissione Ue ha rilanciato uno studio di fattibilità ipotizzando l’applicazione di un’aliquota dello 0,1% sugli scambi di valute, titoli, obbligazioni e derivati. Il gettito fiscale stimato per l’Unione Europea ammontava a 400 miliardi di euro.

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