Genova sarà ricordata come Bologna (1999, Guazzaloca). Ma le elezioni amministrative del 2017 potrebbero avere la stessa faccia delle Regionali del 2000, dopo le quali Massimo D’Alema rassegnò le dimissioni da presidente del Consiglio. Il Partito democratico al primo turno aveva derubricato i risultati come un sintomo passeggero, molti dirigenti si erano affrettati a mettere in evidenza i successi qua e là. Ora il Pd si sveglia e si scopre sconfitto in città che governa da decenni: in Emilia, a Piacenza, la città “della Ditta”; in Toscana, a Pistoia, nei luoghi in cui Benigni diceva di voler bene a Berlinguer; in Liguria, a La Spezia, città portuale e operaia; fino in Lombardia, a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia. Il centrodestra conquista 12 città che fino a ieri avevano un sindaco di centrosinistra, di varia estrazione: oltre a Genova, la coalizione Forza Italia-Lega Nord-Fratelli d’Italia trionfa ad Alessandria, Asti, Como, Lodi, Monza, La Spezia, Piacenza, Pistoia, Rieti, L’Aquila e Oristano. A queste si aggiungono i tre capoluoghi che restano di centrodestra: a parte Frosinone (già riconquistata al primo turno), il polo delle destre ha vinto di nuovo a Verona (dove ha resistito alla scissione di Tosi con una faccia nuova, Federico Sboarina) e a Catanzaro e Gorizia dove ha riconfermato i sindaci Sergio Abramo e Rodolfo Ziberna.

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Genova è il simbolo della “formula perfetta”, quella della ricomposizione del centrodestra, che aveva portato Giovanni Toti alla presidenza della Regione Liguria. E infatti è lo schema che Toti non si stanca di riproporre, ora agevolato dai risultati che nel centrodestra tutti si aspettano faranno capitolare Silvio Berlusconi, finora un po’ restio a rifare il centrodestra vecchio stampo con una Lega più “anti” di quanto fosse quella di Bossi dei bei tempi che furono. Marco Bucci, il nuovo sindaco di Genova, aveva poi l’identikit che Matteo Salvini da qualche tempo predilige: non è un politico di professione, ma un manager del settore della tecnologia. Una personalità della “società civile”, come si sarebbe detto una decina di anni fa per il centrosinistra. Una scelta che il centrodestra ha fatto per esempio anche ad Alessandria (dove lo storico dell’arte Gianfranco Cuttica di Revigliasco ha battuto la sindaca uscente Maria Rita Rossa del Pd) o a Verona, dove Federico Sboarina – un avvocato – ha battuto la senatrice Patrizia Bisinella, candidata e compagna di Flavio Tosi, che aveva ricevuto l’appoggio esplicito del Pd per bocca diretta della dirigenza del Nazareno. O ancora alla Spezia, dove il primo cittadino da oggi è Pierluigi Peracchini, un ex sindacalista della Cisl, settore trasporti. Ma a destra c’è ancora l’altra opzione, cioè “scegliere bene” il candidato tra i giovani emergenti, che ispirano rinnovamento, rottura. Lo fanno sempre più spesso i Fratelli d’Italia che esprimeranno – sostenuti dalla coalizione – i sindaci di due grandi città e per giunta simboliche: Alessandro Tomasi a Pistoia e Pierluigi Biondi all’Aquila (qui il Pd locale di Massimo Cialente e Stefania Pezzopane è sotto shock).

Matteo Renzi – che parla di risultati “a macchia di leopardo” – sembra accontentarsi dei successi di Sergio Giordani a Padova (dove governava il leghista Massimo Bitonci) e di Carlo Maria Salvemini a Lecce (tradizionalmente di centrodestra) che si aggiungono a quelli di Cuneo, Palermo e Taranto (con candidati non di diretta promanazione del Pd) e Lucca (dove il successo è arrivato con un distacco di misura e con fatica). L’arretramento sul territorio che si faceva già sentire nel 2016 (e fu ignorato dai vertici del Pd) diventa ora quasi a tappeto e lo si vedrà anche con l’analisi dei risultati degli altri Comuni superiori andati al ballottaggio: si diceva Sesto San Giovanni, ma c’è anche Carrara, dove il nuovo sindaco sarà dei Cinquestelle, per la prima volta non di sinistra. Risultati che arrivano dopo tre anni e mezzo di segreteria di Renzi. Qualcuno dei suoi ora parla della difficoltà dei rapporti di coalizione, qualcun altro dei danni della scissione di Mdp, altri ancora sottolineano che i candidati perdenti non erano del Pd (neanche la maggioranza di quelli vincenti, peraltro). E’ vero che l’elettorato è sempre più fluido e libero da ideologie e senso di appartenenza. Ma difficilmente potranno essere definiti semplici incidenti di percorso disastri in città come Genova, La Spezia, Pistoia, Piacenza, la retromarcia ingranata nelle grandi città della Lombardia (comprese la Lodi di Lorenzo GueriniMonzaSesto), la fragilità quasi sorprendente in varie zone del Centro Italia, soprattutto nelle Regioni ormai sempre meno rosse, Toscana, Emilia Romagna e Marche. Tutto questo aggravato da un’affluenza in crollo verticale (46 per cento) in un turno elettorale che vedeva il Pd impegnato in quasi tutte le sfide principali, sia pure in posizione di svantaggio in gran parte di queste. Per il momento tuttavia l’analisi del Pd è quella del suo responsabile Enti locali Matteo Ricci al quale basta ricordare – come faceva già al primo turno – che 42 sindaci sono andati al centrosinistra e 24 al centrodestra.

Il M5s, quasi una comparsa a queste elezioni comunali, uscita da tutte le sfide più importanti già al primo turno, raccoglie qualche frutto qua e là. Vince – come rivendicano alcuni dei suoi più importanti parlamentari – 8 ballottaggi sui 10 che aveva acciuffato quindici giorni fa. Tra questi ci sono Guidonia Montecelio, alle porte di Roma, che è la terza città più popolosa del Lazio, e ancora cittadine più piccole come Ardea sempre nel Lazio, Fabriano nelle Marche, Mottola o Canosa in Puglia e Acqui Terme in Piemonte, dove i Cinquestelle ce l’hanno fatta per 5 voti. Per Di Maio ad ogni modo già questo rappresenta una “crescita inesorabile”.

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