La condanna di Salvatore Parolisi è diventata definitiva e il padre di Melania Rea, Gennaro, ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, per chiedere che all’uomo, che dovrà scontare 20 anni per l’assassinio della moglie, venga revocato lo status di militare. “Un militare condannato per omicidio in via definitiva – si legge nella lettera – non crediamo possa ancora mantenere lo status di militare, persino godendo di qualche privilegio connesso alla suddetta condizione. Inoltre – scrive ancora Rea – il reato commesso non ha nulla a che vedere con i reati militari e anzi lede l’immagine dei militari, quale sono io stato, avendo ricoperto la carica di primo maresciallo dell’Aeronautica Militare prima del pensionamento”. Nella missiva si chiede “di provvedere al più presto a far scontare la misera pena di Parolisi, al confronto dell’ergastolo del mio dolore, presso un normale carcere, con i delinquenti e gli assassini comuni, quale egli è”.

La richiesta della famiglia della vittima arriva nel giorno del deposito delle motivazioni della sentenza della Cassazione. Secondo gli ermellini la “doppiezza” e la “falsità” del comportamento di Parolisi nel suo rapporto con la moglie e con l’amante Ludovica costituiscono l’’humus psicologico per lo scatenamento della furia” omicida. L’ex militare uccise Melania, il 18 aprile 2011, in un “dolo d’impeto” con 35 coltellate, poi “con lucidità e prontezza” mise in atto una “strategia di depistaggio“. Sviò le indagini, provò a cancellare i rapporti con l’allieva della sua caserma di Ascoli Piceno, rese “false informazioni” agli inquirenti.

Motivando la sua decisione, la V sezione penale della Cassazione sottolinea come “i riferimenti alla doppiezza e alla falsità del comportamento dell’imputato” (anche dei confronti della sua amante) nella sentenza d’appello giustifichino la mancata concessione delle attenuanti generiche, invocate dalla difesa, che aveva presentato ricorso. E ricorda come anche la corte d’Assise d’appello dell’Aquila, nel primo processo, “avesse correttamente considerato la relazione” tra Parolisi e la sua amante non come ‘movente’ in senso tipico, ma come “antecendente logico e storico’ di un profondo ‘disagio personale’ che aveva determinato – scrissero i giudici del primo appello – una ‘strettoia emotiva’: condizioni di aggressività si erano ‘sintetizzate’ nel momento del delitto”.

“Alla mancanza di freni inibitori – scrive ora la Cassazione – espressa dalla prolungata reiterazione dei colpi e all’assoluta mancanza di pietà verso la donna si accompagna, nel percorso argomentativo del giudice del rinvio, il recupero, appena terminata l’azione, del pieno controllo della situazione da parte di Parolisi, che con lucidità e prontezza, riuscì ad imbastire un piano diversivo, volto a sviare le indagini e ad allontanare da sé qualsiasi sospetto”. A carico di Parolisi, i giudici sottolineano “la complessiva strategia di depistaggio delle indagini”. Strategia consistita “in una pluralità di condotte”, compreso “il vilipendio del cadavere” e “i tentativi di occultamento delle relazione” extraconiugale, “tra i quali la rimozione del contatto tra i due su Facebook”, oltre che “l’occultamento di tracce, le false informazioni e indicazioni fornite agli inquirenti”.

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