L’Italia soffre di frane e alluvioni, con conseguenze tragiche per le vite delle persone e per le economie di intere province. Le risorse per la prevenzione del rischio idrogeologico ci sono ma restano spesso chiuse nelle casse delle pubbliche amministrazioni. A dirlo è il Rapporto sullo stato del rischio del territorio italiano curato da Ance (Associazione nazionale costruttori edili)-Cresme ricerche. E i numeri sono impietosi. Negli ultimi quattro anni sono stati programmati 1700 interventi per 2,1 miliardi di euro (tra risorse statali stanziate con delibera Cipe, risorse del ministero dell’Ambiente e risorse regionali), ma 1100 cantieri non sono ancora partiti e 1,6 miliardi aspettano ancora di essere spesi. Solo il 4% degli interventi pianificati è stato portato a termine e i lavori sono in corso solo per un restante 18%.

Secondo Ance Lombardia, i ritardi nell’utilizzo dei fondi sono stati determinati in particolare dall’incertezza relativa alla disponibilità delle risorse. Ad esempio, il 6 novembre del 2009, il Cipe ha stanziato 1 miliardo di euro per interventi urgenti, ma la delibera è stata pubblicata più di un anno dopo, il 17 dicembre 2010. Le finanziarie degli anni successivi hanno poi ridotto le risorse e solo nel 2012 il Cipe ha chiarito il quadro delle risorse disponibili. “In Italia si sente l’urgenza di realizzare autostrade, ma non si investe sulla tutela del territorio, che è la nostra infrastruttura più importante”: così Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia, ha sintetizzato la propria posizione in occasione della presentazione del Focus Lombardia del rapporto nazionale. “La cultura del rischio e quindi della prevenzione, continua a faticare a trovare spazio – ha continuato Di Simine -, per esempio nella pianificazione del territorio, nelle funzioni che sono degli enti locali. Un dato abbastanza sconcertante del rapporto che presentiamo è il fatto che la popolazione residente nelle stesse aree a rischio negli ultimi 15 anni è aumentata in modo significativo”.

Secondo quanto emerge dai dati presentati a Milano sono 580 mila, solo in Lombardia, le persone che vivono in aree ad alto rischio idrogeologico. I territori esposti al pericolo di alluvioni e smottamenti ospitano 99 mila edifici residenziali e 50 mila tra insediamenti industriali, scuole, ospedali e altri edifici pubblici. La ricerca ha evidenziato inoltre come la popolazione esposta, dal 2001 ad oggi, sia aumentata del 9% e il numero di edifici, nello stesso periodo, sia cresciuto del 15,2%, un dato superiore alla media nazionale. Secondo gli enti che hanno collaborato alla realizzazione della ricerca (Legambiente, Ordine dei geologi, Ordine degli architetti e Associazione nazionale dei costruttori edili) per ridurre il rischio occorre aggredire il problema da più fronti, in prima battuta la necessità è proprio quella di dare seguito ai lavori che, spesso, sono attesi da anni: “Il discorso economico è spesso un alibi – ha sottolineato Vincenzo Giovine, presidente lombardo dell’ordine dei geologi -. A fronte di eventi reali che si verificano sul territorio bisogna trovare fondi a posteriori per interventi che hanno costi nettamente superiori rispetto a quelli che servirebbero per mitigare e ridurre il rischio. Ora è più che mai necessario passare ad una fase attuativa, bisogna passare dalle parole ai fatti e ridurre le criticità”.

Sul banco degli imputati c’è anche il patto di stabilità, che impedisce di attuare interventi anche quando gli enti locali hanno le risorse in cassa, che invece potrebbero essere destinate a priorità ben definite, a partire dalla messa in sicurezza dell’edilizia scolastica, così come sottolinea Gianluigi Coghi, coordinatore del centro studi di Ance Lombardia “escludiamo le spese per la prevenzione del rischio idrogeologico dal computo del Patto di stabilità interno, un meccanismo troppo rigido che impedisce di spendere i soldi anche alle amministrazioni che li hanno”.

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