Il Paese dei cedri è in fibrillazione da molto tempo. Non solo per la tensione importata dalla vicina Siria. Fra tre settimane si dovrebbe aprire in Libano (a Beirut) il processo, a lungo rinviato, contro 5 membri dell’ala militare del partito sciita Hezbollah, accusati di essere i responsabili dell’attentato che il 14 febbraio del 2005 uccise, con altre 21 persone, l’ex primo ministro Rafiq Hariri, padre di Saad, a sua volta premier. Mohamad Chatah, il 62enne ex ministro ucciso oggi, era uno stretto collaboratore di Hariri, sulla cui morte nemmeno un’inchiesta internazionale è riuscita a fare piena luce.

L’attentato a Chatah è l’ultimo di una serie di eventi che stanno funestando il Libano ormai da mesi, risvegliando i fantasmi della lunga guerra civile che ha distrutto il Paese tra il 1975 e il 1990. Dieci giorni fa, il 17 dicembre, un’autobomba è esplosa nell’est del paese, in una delle zone controllate da Hezbollah, ferendo diverse persone, tra cui molti civili. A novembre, il 19, un doppio attentato suicida, rivendicato dalle Brigate Azzam – considerate parte del network qaedista – ha colpito l’ambasciata iraniana di Beirut, provocando 23 morti e oltre 150 feriti. In estate, ad agosto, c’era stata il 15 la bomba contro un compound di Hezbollah in un quartiere della periferia sud di Beirut (20 morti e 200 feriti), poi poco più di una settimana dopo, un attentato contro una moschea sunnita nella città di Tripoli, nel nord del paese: 47 morti e oltre 500 feriti. E ancora, a luglio 53 morti nel quartiere sciita di Daiyeh, periferia sud di Beirut; a giugno invece gli scontri tra l’esercito libanese e un gruppo armato sunnita nella città di Sidone (16 morti tra i soldati, un numero imprecisato tra miliziani sunniti). L’elenco potrebbe continuare fino al maggio di quest’anno, quando per diversi giorni ci sono stati scontri a fuoco nella città di Tripoli tra gruppi armati sunniti ed alawiti. Il conflitto siriano, quindi, non solo rischia di essere importato nel Paese dei cedri, ma di incistarsi sulle mai sopite rivalità tra le diverse comunità della frammentata società libanese.

I responsabili dell’attentato contro l’ambasciata iraniana, per esempio, erano ritenuti membri di un gruppo estremista sunnita guidato dallo shaykh Ahmad Assir, con base nella città di Sidone. Assir e i suoi sono impegnati a contrastare, armi in pugno, Hezbollah, e hanno anche attaccato in diverse occasioni soldati dell’esercito libanese. La risposta dei militari ha costretto Assir alla clandestinità, ma non – secondo alcune analisi – all’inattività. Peraltro, il bilancio della serie di attentati e vendette incrociate avrebbe potuto essere più pesante: i servizi di sicurezza e l’esercito sono riusciti in diverse occasioni a intervenire disinnescando bombe pronte ad esplodere sia in zone sciite che in quartieri sunniti.

Come se non bastasse, da aprile scorso di fatto non c’è un governo funzionante, dopo le dimissioni dell’esecutivo guidato da Najib Miqati e la situazione siriana che fa sentire i suoi effetti anche sull’economia libanese, che continua una lenta parabola discendente. A impedire la nascita di un nuovo esecutivo di coalizione e unità nazionale ci sarebbe proprio il nodo siriano. Da giugno scorso il leader del Partito di Dio, shaykh Hassan Nasrallah, ha ammesso apertamente il coinvolgimento della formazione sciita in Siria, al fianco delle truppe lealiste del governo di Bashar Assad. E pochi giorni fa il vicesegretario del partito, Naim Qassem, in un discorso pubblico, ha ribadito questa posizione. La scelta di Hezbollah è dettata da molte ragioni: il legame storico con il governo di Damasco, retroterra logistico e politico per il partito sciita; gli interessi diretti e indiretti del partito di Dio in Siria, ma anche, specie nei discorsi ufficiali, la necessità di proteggere il Libano e in particolare la comunità sciita, dai gruppi salafiti jihadisti che di fatto sono l’ala militare più efficace della galassia della resistenza contro Assad. Hezbollah, però, nel 2012 aveva firmato con altri partiti libanesi la dichiarazione di Baabda, che impegnava le forze politiche nazionali a non lasciarsi coinvolgere dalla crisi siriana. Violando gli accordi, dicono i partiti della coalizione 14 marzo (a guida sunnita), Hezbollah sarebbe responsabile dello stallo politico che sta paralizzando il Paese.

Ultimo problema, la presenza dei profughi siriani: il Libano non è mai riuscito a trovare un modus vivendi con i profughi palestinesi “ospiti” nel paese dal 1948 e tutt’ora discriminati per legge quanto a possibilità di trovare lavoro e casa, ma ora c’è l’emergenza costituita da almeno 200mila profughi siriani che sono entrati nel paese negli ultimi mesi. La loro presenza, oltre ai problemi politici, logistici e di assistenza – l’Unhcr registra circa 1500 nuovi arrivi al giorno – sta creando tensioni anche sul piano economico: i profughi sono una riserva di manodopera a bassissimo costo.

Dopo ogni attentato degli ultimi mesi, si è scritto e ripetuto che il rischio è che anche il Libano precipiti in una guerra civile. Se finora non è accaduto è perché i fantasmi del passato, a Beirut come altrove nel Paese fanno davvero paura. La tensione però è altissima e ogni nuova autobomba, ogni nuova vittima, rischia di essere l’innesco per una reazione a catena imprevedibile. Anche per questo, da diversi mesi, nei cassetti dell’Onu e dei Paesi coinvolti, sono pronti i piani per una eventuale evacuazione di emergenza dei caschi blu schierati nella zona tra il fiume Litani e il confine con Israele, per la missione internazionale decisa dopo la guerra del 2006. Tra loro, circa 1500 soldati italiani. I contingenti internazionali finora non sono stati sfiorati dalle tensioni interne, ma la loro presenza è un ulteriore motivo per ricordarsi quanto sia limitata e fragile la sovranità libanese.

di Joseph Zarlingo

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