Fare leva sulle difficoltà degli italiani per salvare le poltrone. E’ l’accusa rivolta dal rapporto annuale del Censis alla “classe dirigente italiana”, che “tende a ricercare la sua legittimazione nell’impegno a dare stabilità al sistema, magari partendo da annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre che hanno la sola motivazione e il solo effetto di far restare essa stessa la sola titolare della gestione della crisi“. Negli ultimi mesi si sono imposte così nella dialettica sociale e politica “tre tematiche che sembrano onnipotenti nello spiegare la situazione del Paese: la prima è che l’Italia è sull’orlo dell’abisso, la seconda è che i pericoli maggiori derivano dal grave stato di instabilità e la terza è che non abbiamo una classe dirigente adeguata a evitare il pericolo del baratro”. Criticità che sono confermate all’interno del dossier sulla situazione sociale del Paese, con dati allarmanti su tutti i fronti, dalla disoccupazione record ai consumi tornati indietro di dieci anni.

Italiani infelici, mentre la furbizia è generalizzata
“Non si illumina una realtà sociale con questi atteggiamenti ed è impossibile pensare a un cambiamento”, precisa il rapporto, perché “la classe dirigente non può e non vuole uscire dalla implicita ma ambigua scelta di drammatizzare la crisi per gestirla: una tentazione che peraltro vale per tutti, politici come amministratori pubblici, banchieri come opinionisti”. Un atteggiamento che porta a uno “sconforto continuato” tra gli italiani, con conseguenze dirette sulla società, sempre più “sciapa“, dove circola “troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro ed evasione fiscale” e dove si diventa “malcontenti e infelici”, sotto il peso di un “inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali“.

Il rapporto del Centro studi investimenti sociali, guidato da Giuseppe De Rita, dedica un passaggio alla “coazione alla stabilità”, che “non può certamente coprire lo sconforto collettivo di fronte al permanere dei pericoli di catastrofe” e che ha portato in un momento critico “a una tale paura del conflitto da sfociare in una ‘reinfetazione’ delle forze politiche nelle responsabilità del presidente della Repubblica”, anche se “non si è avuta adeguata coscienza” che una mossa di questo tipo fosse “un grande incubatore di disturbi essenziali e di sistema”. Di fronte a uno scenario simile, in altri periodi sarebbe scattato l’orgoglio dei cittadini che si ponevano come “soggetto di autonoma responsabilità collettiva”, ma questa volta “sempre più in ombra appare la società civile che verosimilmente ha consumato il suo orgoglio in illusorie ambizioni di una superiorità morale utilizzata come strumento politico”.  

L’avvitamento della politica nella spirale della crisi
Il rapporto dedica un paragrafo all'”avvitamento della politica“, sottolineando che “negli ultimi 12 mesi i governi che si sono avvicendati hanno emanato oltre 660 provvedimenti di attuazione delle varie leggi di riforma, mentre la quota di quelli effettivamente adottati è stata pari a circa un terzo”. Il dossier arriva così alla conclusione che “il paradosso della moltiplicazione degli interventi di riforma, cui però si associa la percezione di un’insufficienza di tali provvedimenti rispetto alla spirale drammatica della crisi economica e sociale, è il segnale di un’incompiuta riconfigurazione della scala e della dimensione d’intervento fra i diversi livelli di governo”. Non sorprende quindi che “gli italiani sono sicuramente molto meno attivi della media dei cittadini europei per quanto concerne il coinvolgimento nei processi decisionali pubblici”, al punto che “più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica”.

Le spese delle famiglie tornano indietro di dieci anni
Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Nel 2013 le spese delle famiglie sono tornate indietro di oltre dieci anni. I tagli sono evidenti soprattutto al supermercato: il 48,6% dei cittadini dichiara di avere mutato intenzionalmente le abitudini alimentari cercando di risparmiare. E il paragone con gli altri Paesi europei è evidente: il 76% degli italiani dà la caccia alle promozioni, contro il 43% della media europea. Risparmi anche sulla benzina. Oltre il 53% ha ridotto gli spostamenti in auto e moto in 24 mesi e il 68% ha dato un taglio a cinema e svago. Ma i risparmi non bastano ad affrontare neanche le spese più essenziali. Per il 72,8% delle famiglie un’improvvisa malattia sarebbe infatti un grave problema da finanziare, mentre il pagamento delle bollette mette in difficoltà oltre un italiano su cinque.

Il rapporto del Censis conferma che il nodo principale resta l’occupazione. “Il 2013 si chiude con la sensazione di una dilagante incertezza sul futuro del lavoro in Italia”, spiega il dossier, sottolineando che un quarto degli occupati è convinto che nei primi mesi del 2014 la propria condizione lavorativa peggiorerà, il 14,3% prevede un taglio della busta paga e un altro 14% teme di perdere il posto. Il trend, d’altronde, è già evidente. Sono quasi 6 milioni gli occupati che nell’ultimo anno si sono trovati a fare i conti con “situazioni di precarietà lavorativa“, un’area di disagio che rappresenta oltre un quarto della forza lavoro. A farne le spese sono soprattutto i più giovani, ma anche la fascia compresa tra i 35 e i 44 anni.

Boom di imprenditori immigrati, mentre gli italiani si fanno da parte
Per uscire dalla spirale della crisi il Censis invita a riconsiderare il ruolo degli immigrati, definendoli “un volano”. “Di fronte alle difficoltà di trovare un lavoro dipendente, costretti a lavorare per restare in Italia, gli stranieri si assumono il rischio di aprire nuove imprese“, spiega il rapporto, sottolineando che gli imprenditori italiani sono calati del 4,4% dal 2009 al 2012, mentre i titolari d’impresa nati all’estero sono aumentati del 16,5 per cento. Sempre per quanto riguarda gli immigrati c’è poi un dato che invece preoccupa il Censis. Gli extracomunitari di età superiore ai 64 anni sono aumentati del 91% negli ultimi otto anni. Ora rappresentano solo lo 0,7% del totale degli anziani che vivono all’interno del Paese, ma lo scenario è destinato a cambiare: nel 2020 saranno il 4,4% del totale e nel 2040 saranno oltre un milione e mezzo, portando una “significativa richiesta di servizi sociali“.

Cambia quindi la situazione degli immigrati, mentre i problemi del Paese restano i soliti. A partire dall’istruzione. “L’affanno che gli atenei mostrano nei confronti internazionali è la conseguenza di un sistema universitario per certi versi troppo provinciale”, avverte il dossier. “Le università italiane stentano quindi a collocarsi all’interno delle reti internazionali di ricerca”, poiché la “prevalente connotazione locale” pesa sulla “reputazione internazionale”. Non c’è da stupirsi, quindi, se i dati sull’istruzione continuano a preoccupare, con il “21,7% della popolazione italiana oltre i 15 anni che ancora oggi possiede al massimo la licenza elementare”.

Nel frattempo la “fuga” degli italiani all’estero non conosce soste: nell’ultimo decennio il numero di chi ha trasferito la residenza è più che raddoppiato, da 50mila a 106mila. Ma è stato soprattutto nel 2012 che l’incremento ha visto un boom: +28,8% tra il 2011 e il 2012. Sono soprattutto giovani: il 54,1% ha meno di 35 anni.

I problemi irrisolti: dal Meridione ai grandi progetti urbani
Un problema che rimane “irrisolto” è anche quello del Meridione. “Forte è l’impressione che da ogni programma politico la questione meridionale sia stata di fatto derubricata”, avverte il report. I dati parlano chiaro: l’incidenza del Pil del Mezzogiorno su quello nazionale è scesa di un punto percentuale dal 2007 al 2012, così come i dati occupazionali restano sensibilmente inferiori al Sud, dove sono a rischio povertà 39 famiglie su 100 a fronte di una media nazionale del 24,6 per cento. Al punto che “l’Italia appare tra i sistemi dell’Eurozona quello in cui sono più rilevanti le disuguaglianze territoriali“. Resta poi il problema del “lungo travaglio dei grandi progetti urbani“, poiché “la difficoltà di portare a realizzare alcune grandi operazioni progettate ormai in un’altra fase storica” costituisce “senza dubbio” una componente importante della fase critica che stiamo attraversando.

Non bisogna infine trascurare il vizio delle mazzette. “l’indice di Transparency International, che misura la percezione della corruzione nel settore pubblico e politico, posiziona l’Italia al 72esimo posto nel mondo su 147 Paesi”, ricorda il rapporto, “e se guardiamo all’Europa l’Italia è in fondo alla classifica, davanti alle sole Bulgaria e Grecia”. Con un impatto “devastante” anche sull’economia. Secondo la Banca mondiale nel mondo ogni anno vengono infatti pagati più di mille miliardi di dollari in tangenti, una cifra che è di 50-60 miliardi per quanto riguarda l’Italia.

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