Delusione per la solitudine nella quale lo costringono oggi, dopo anni al servizio della Dc e dello Stato. Messaggi non tanto velati a chi è ancora in sella. Pressioni dirette sul Quirinale perché intervenga. La ricerca ossessiva di protezione. In queste ore Nicola Mancino sta studiando con i suoi avvocati una via d’uscita dall’inchiesta palermitana sulla trattativa Stato-mafia, ma soprattutto sta riandando con memoria, appunti e agende, agli inizi degli anni Novanta del secolo passato. Anni stragi e terrorismo politico-mafioso. Alcuni protagonisti del potere di allora (Gava, Scalfaro, Parisi) sono morti, altri (Martelli e Scotti) sono vivi e i loro ricordi contrastano nettamente con i suoi. “Chiesi conto a Mancino della trattativa tra Ciancimino e il Ros”, fa mettere a verbale l’ex Guardasigilli socialista. Mancino nega. Martelli conferma.

Allora che significato dare alla telefonata del 6 dicembre dell’anno scorso intercettata dalla Dia? L’ex ministro dell’Interno è stato interrogato per la seconda volta dai pm palermitani. È tesissimo. Ancora una volta ha negato di essere stato a conoscenza dell’esistenza di qualsiasi trattativa. Non era “il terminale” ultimo tra Totò Riina e lo Stato, come dice Giovanni Brusca.

Prende il telefono e chiama sua moglie: “Non ho detto niente di Gava”. Cosa c’entri Antonio Gava, pezzo da novanta della Dc dorotea e ministro dell’Interno dal 22 luglio 1989 al 16 ottobre 1990, non è chiaro. Cosa è accaduto nel rapporto tra Stato e Cosa Nostra negli anni di don Antonio al Viminale, neppure. Quale ruolo ha svolto l’importante uomo politico democristiano nella stagione delle stragi, quando era capo dei senatori del partito ? Misteri. Quella che appare invece chiarissima nelle parole di Mancino è la delusione. L’ex ministro dell’Interno si sente “un uomo solo”, chiama il magistrato Loris D’Ambrosio e invoca “protezione”. Perché la solitudine può giocare brutti scherzi, e chi è solo può chiamare in causa altri. Anni di misteri quelli tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Nicola Mancino viene nominato ministro dell’Interno il 28 giugno 1992, presidente del Consiglio è Giuliano Amato. Quando al governo arriva Carlo Azeglio Ciampi, è riconfermato nell’incarico, fino al 19 aprile 1994, giorno delle sue dimissioni. “Chi mi volle ministro dell’Interno fu in primis il presidente Scalfaro”, dice l’8 novembre 2010 alla Commissione antimafia, respingendo ogni illazione sulla sua nomina. Bisogna “evitare il coinvolgimento” di Scalfaro , dice oggi, vent’anni dopo, nelle telefonate intercettate dalla Dia. Il leit-motiv di Mancino è sempre lo stesso: “Nessuno mi ha mai informato delle supposte trattative con la mafia, né Parisi, né Taormina, né Viesti, né De Gennaro, né Mori, né De Donno”. In quegli anni di stragi e misteri, il capo del Viminale ammette di essere stato tenuto all’oscuro di tutto: “Mori, probabilmente non c’era feeling con me, non mi disse mai che lui e De Donno si incontravano con Ciancimino, così come non mi informò neppure il giorno della cattura di Riina… ne venni a conoscenza grazie alle telefonate di Scalfaro e di Parisi (il capo della Polizia, ndr)”.

Ma ci sono altri passaggi di quel periodo ancora oscuri. Mesi prima che scoppiassero le bombe a Roma e Milano, 27 luglio 1993 (cinque morti e decine di feriti) un pezzo da novanta della mafia pugliese, Salvatore Annacondia, diventato collaboratore di giustizia, rivela al pm della dda di Bari, Alberto Maritati, che Cosa Nostra e camorra stavano preparando una strategia della tensione. Obiettivo il 41 bis, il carcere duro per i boss. “Prima faranno piccoli avvertimenti, poi il botto grosso. Dopo il 20 luglio”.

Il pentito non viene verbalizzato per sua volontà, ma le bombe scoppiano sette giorni dopo la data indicata nelle rivelazioni. Alla fine di luglio di quell’anno il ministro dell’Interno Mancino riunisce tutti i questori d’Italia e lancia un allarme pesante. “Forze occulte, eversive e reazionarie lavorano per orientare verso sbocchi autoritari la diffusa esigenza di mutamento presente nell’opinione pubblica”. Le bombe, aggiunge il ministro, forse sono mafiose, “ma non dobbiamo commettere l’errore di accantonare altri poteri”. Quali? È ancora un mistero. Forse.

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