In tempi di nuovi emarginati, indignati e flash mob sotto il segno della “v” di vendetta, quella che fa Valerio Evangelisti nel romanzo appena uscito One big union è la rievocazione di un’utopia. E per parlarne parte con una richiesta: “Non chiedetemi di Eymerich, è morto”. L’inquisitore protagonista di molti suoi libri precedenti sarà anche passato a miglior vita, ma il suo creatore per adesso non sembra sentirne troppo la mancanza perché è la volta di raccontare del sindacalismo rivoluzionario statunitense arrivato a fine corsa degli anni Venti del secolo scorso. Ma che ha lasciato il segno, distinguendosi da un sindacalismo socialista o anarchico soprattutto per la valenza visionaria: arrivare a un’organizzazione che rappresentasse anche i non rappresentati e che di qui modificasse l’assetto sociale, oltre che lavorativo.

I sindacalisti rivoluzionari si muovevano tra boscaioli mutilati, ferrovieri costretti a calarsi sulle rotaie per azionare gli scambi o proletari di campagna. Gente senza importanza nel sistema economico americano di allora perché senza specializzazione. Si infilavano tra cinesi, russi, italiani (definiti i crumiri per eccellenza) e non erano pacifisti. “In realtà subirono la violenza più che praticarla”, dice Evangelisti, “si pensi per esempi a quando erano vittime di tiratori scelti nelle zone minerarie. Ma ci provarono a cambiare”. E ci provarono con strumenti diversi: il fumetto come medium per veicolare contenuti sindacali in mezzo all’analfabetismo e la musica, riscrivendo i testi di canzoni allora in voga come accaduto con l’inno dell’esercito della salvezza, l’unico autorizzato a sfilare pubblicamente.

One big union sembra quasi una voce dal passato per parlare oggi di disoccupazione, flussi migratori, povertà in aumento. “Quella del sindacalismo rivoluzionario”, spiega ancora l’autore, “è stata una voce fuori dalle ideologie preponderanti del tempo, il marxismo dogmatico e l’anarchismo puro. È una storia, la storia che volevo scrivere”.

C’è bisogno di un ritorno a quel tipo di sindacalismo oggi?

“Identico non può essere, però sicuramente occorre una forma di organizzazione di chi non è rappresentato. Parlo di immigrati e precari, per esempio, e in questo senso l’esperienza americana di quegli anni può in parte essere ancora attuale. Lo scopo è quello di farsi forza collettiva”.

Intellettuali come Franco “Bifo” Berardi parlano, a fronte della situazione politica attuale, del fallimento della democrazia rappresentativa. È una constatazione condivisibile?

“La democrazia si costruisce giorno per giorno attraverso un processo in cui ognuno agisce in autonomia riuscendo riuscendo a modificare anche l’assetto istituzionale. Sicuramente la democrazia rappresentativa ha fallito, ma al momento non è visibile una forma alternativa immediata. Una volta Toni Negri, che peraltro non è un mio referente, parlava di modificare la costituzione materiale, cioè non tanto le leggi quanto la loro applicazione. Questo è possibile solo partendo dal basso. Ora non saprei dire se sono a favore di un governo Monti o di uno Berlusconi rifatto, non è quello il problema. Occorre invece riflettere sul cambiamento del quotidiano”.

Chi invece urla al ritorno a un pericolo terrorismo – e tra questi ci sono tanto l’ormai ex ministro del lavoro Maurizio Sacconi quanto esponenti del mondo della cultura – interpreta una minaccia reale o cavalca un pretesto?

“Dalla mia bocca non uscirà una sola parola di condanna della violenza in genere, ma queste affermazioni sono strumentali. Parlare di terrorismo inteso come lotta armata è come parlare di marziani. Oggi come oggi, quando l’Eta o l’Ira e tante altre organizzazioni rinunciano a strumenti del genere, non è che si possa pensare che riappaiano in Italia. Vedo invece l’importanza di una lotta di massa che avrà le forme che riuscirà ad assumere. Tutto il resto, gli allarmi facili o le emergenze urlate, mi sembrano un gridare al lupo per puntare in realtà ad altro. Si vuole trovare un pretesto per schiacciare il movimento reale, che è qualcosa di totalmente diverso dalle Brigate Rosse o simili”.

Un ritorno alle vecchie politiche di gestione dell’ordine pubblico che predicava il presidente emerito Francesco Cossiga quando stava al ministero dell’interno?

“Sì. Cossiga fu un genio in questo campo. Ha ammesso lui stesso per esempio che si infilavano bustine di eroina in tasca ai presunti terroristi per arrestarli e interrogarli. Attenzione alle tasche, quindi. Per il resto affidiamoci al movimento reale, che avrà tantissime incertezze e sicuramente non ha un’ideologia ben definita per il momento. Ma oggi è l’unico che c’è, secondo me crescerà e si tratta di un movimento mondiale. Dopodiché chi vuole mettere un cappuccio e imbracciare un mitra lo farà, ma forzando la realtà per i propri fini”.

In tutto questo Silvio Berlusconi è stato un’anomalia del sistema come in molti anche da sinistra sostengono o ne è stato un frutto diretto con cui fare i conti?

“Nessuna anomalia. Berlusconi era la punta estrema e in questo senso caricaturale di un assetto sicuramente europeo. Fra la sua ideologia e quella del premier francese Nicolas Sarkozy non è che ci siano grandi differenze. Uno è più rozzo, l’altro è più gentiluomo, però la loro impostazione è la stessa, una specie di populismo di destra che se guardiamo ai Paesi dell’est ha avuto veri e propri trionfi, come accaduto in Ungheria. Smettiamo di concentrarci su Berlusconi perché sparito lui chi arriva? Mario Monti, un esponente dell’ultraliberismo. Stante la situazione, non so se cambierà veramente qualcosa. Temo che cambierà solo il costume, meno volgare di prima. Avremo insomma un nuovo leader di buoni costumi personali e basta. Bene, siamo tornati a Robespierre”.

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