Veneto terra di evasori, Veneto locomotiva d’Italia. Veneto dove “qui la mafia non esiste”. E invece c’è, e striscia “silente”, come dice nel suo ultimo rapporto semestrale la Direzione investigativa antimafia. Due i settori prediletti: cittadelle dello shopping e imprenditori da spolpare perché sul baratro della crisi. I numeri della Dia del 2010, pubblicati ad agosto, registrano in Veneto un esponenziale aumento dei reati di riciclaggio, che, a differenza del resto del paese, in un solo anno si sono moltiplicati per sei. L’usura, che cala a livello nazionale, in Veneto aumenta del 23%.

Silenzio e soldi. Questo è il terreno che le mafie prediligono. Lo dimostra la holding Catapano, azzerata a febbraio da un’inchiesta della procura di Padova e sulla quale ora arriva il sigillo della Dda di Napoli. I due fratelli napoletani Giuseppe (che avrebbe tentato un avvicinamento a Domenico Scilipoti per accedere al forum nazionale antiusura bancaria) e Carmine Vincenzo sono arrestati a febbraio per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e alla bancarotta fraudolenta. Ora dietro la holding che avrebbe strangolato otto piccole imprese (di cui sei venete) spunta il clan Gionta, di Torre Annunziata. La Dda di Napoli ha infatti chiesto il rinvio a giudizio, con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, per nove delle 15 persone arrestate nell’ambito dell’inchiesta Catapano. Stando alle indagini, i 50 milioni di euro drenati ai piccoli imprenditori veneti sul lastrico, cui i Catapano avevano promesso iniezioni “salvifiche” di soldi in cambio di lauti anticipi, sarebbero finiti in mano ai Gionta.

E non è che uno degli ultimi casi. L’economia operosa fa gola a tutti, soprattutto a chi ci può nascondere dietro soldi sporchi. Nel mirino ci sono ora i grandi parchi e centri commerciali, gli outlet. E’ qui che, secondo la Dia, si allunga la potente mano mafiosa. Un dato su tutti: nel 2009 le denunce per riciclaggio in Veneto erano due. Nel 2010 sono diventate 12. Una al mese. E così da locomotiva la regione si trasforma in “lavatrice” d’Italia. Secondo la Dia “c’è da segnalare una vulnerabilità dei tessuti sociali locali soprattutto da parte di organizzazioni mafiose connotate da una matrice sempre più imprenditoriale”.

I colletti bianchi, insomma. Camorra e mafia si farebbero largo nei centri commerciali, la ‘ndrangheta nei villaggi-outlet e grandi griffe. Il controllo dei centri commerciali consente di esercitare un grosso potere sui flussi di denaro, condizionando compratori, fornitori e investitori. “Il circuito della grande distribuzione rappresenta anche uno strumento per consolidare il potere illegale sul territorio attraverso l’offerta di impieghi nell’indotto lavorativo”, scrive la Dia, che parla di “un movimento silenzioso che non solleva allarmi sociali, assicurando, al contempo, ampi margini di profitto”. Basta fare un giro nei piccoli “castelli” del lusso come quello di Noventa di Piave (Venezia). Qui qualcuno puà davvero credere che la crisi non esista.

E poi resta sempre il business dei rifiuti. E’ dell’aprile scorso la Procura di Padova che ha indicato in Franco Caccaro, titolare della padovana Tpa (ditta di triturazione), il prestanome dell’avvocato Cipriano Chianese, “re dei rifiuti”, legale del clan dei Casalesi. Nelle casse della ditta di Caccaro sarebbero entrati 3 milioni di euro di provenienza sospetta, ora sequestrati. Altro elemento inquietante: come ha scritto Giovanni Viafora su ilfattoquotidiano.it, Caccaro era stato in società con il presidente del Consiglio regionale del Veneto Clodovaldo Ruffato, Pdl. Il collegamento tra l’imprenditore padovano, denunciato a piede libero, e Chianese, viene dalla Dia di Napoli, che in collaborazione con i colleghi di Padova ha sequestrato alla camorra beni per 13 milioni di euro, tra cui ville di lusso a Sperlonga e abitazioni di pregio nel Casertano. L’indagine, coordinata dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, è arrivata a Padova, mettendo i sigilli sui 3 milioni trasferiti da Chianese alla Tpa di Caccaro.

Sempre nel 2011 scoppia un altro caso. A febbraio la squadra mobile di Padova, in collaborazione con la Dia di Reggio Calabria, ha eseguito un’ordinanza a carico di Cesare Longrondo, calabrese di 44 anni, residente a Torreglia (Padova), accusato, con altre trenta persone, di associazione a delinquere di stampo mafioso. Longrondo è sospettato di affiliazione al clan ‘ndranghetistico della famiglia Longo di Polistena (Rc). Gli investigatori gli contestano danneggiamenti, estorsioni, porto abusivo di armi da guerra ed esplosivi, tentativi di acquisizione di appalti pubblici, attività economiche, concessioni di autorizzazione a servizi pubblici, intestazioni fittizie. Sono finiti sotto sequestri beni per 30 milioni di euro.

E poi ci sono “i fuggitivi”, sospettati di essere affiliati alle cosche perdenti delle guerre di mafia. Sorvegliati speciali che vivono in case di lusso. Come Domenico Multari detto “Gheddafi”, calabrese sospettato di affiliazione con il clan Dragone-Arena di Cutro (Crotone), che a Zimella (Verona) ha accumulato una fortuna. A luglio la Dda di Venezia gli ha sequestrato beni per tre milioni di euro. In 12 anni di “esilio volontario” in terra veneta aveva denunciato in tutto 40 mila euro di reddito. La Dia gli ha sequestrato la Real Costruzioni e la Immobiliare Romana srl, intestate ai figli, oltre a case e appartamenti. Nella terra dove “la mafia non esiste”.

di Roberta Polese

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