Maban è marocchino, ha poco più di trent’anni ed è omosessuale. In Italia ha ottenuto la protezione internazionale, dal momento che in patria rischia la vita e la libertà solo per via del suo orientamento sessuale. Ma nonostante il suo status Maban potrebbe essere espulso per una mancata notifica da parte della questura di Bologna. A denunciare il caso sono i suoi avvocati che per bloccare la sua partenza hanno fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Quella di Maban (nome di fantasia ovviamente) è solo una delle tante storie che trapelano fuori dalle mura del Centro d’ identificazione ed espulsione di Bologna, dove da aprile, per effetto di una circolare (n. 1305) del ministro dell’ Interno Roberto Maroni, non possono più accedere i giornalisti, nemmeno se accompagnati da parlamentari.

Una sorta di legge speciale voluta dal Ministero di fronte all’emergenza profughi, che di fatto ha trasformato i Cie di tutt’Italia in veri e propri buchi neri vietati alle telecamere e agli occhi dei giornalisti. Le condizioni di vita di chi è rinchiuso dentro si possono apprendere solo indirettamente dalle parole dei loro avvocati. O da quelle di deputati come Sandra Zampa, che è riuscita ad ottenere il permesso per visitare il centro di Bologna.

“Dentro c’è una grande disperazione  – ha detto la parlamentare Pd una volta uscita – è una situazione tanto toccante,  che non si riesce a descrivere a parole. Vorrei che anche i comuni cittadini potessero entrare e vedere come questi esseri umani vivono”.  La parlamentare si è scagliata poi contro la politica del governo che, oltre a chiudere le porte alla stampa, ha deciso di triplicare il periodo detenzione all’ interno dei centri, portandolo da 6 a 18 mesi. “È una delibera fatta per pura vendetta contro gli immigrati – ha accusato Zampa – un atto contrario sia alla cultura che alle direttive Ue. È  un’inciviltà tenere in prigione per 18 mesi delle persone che scappano dalla fame”.

Gli stranieri rinchiusi nel centro, secondo quanto racconta la deputata, dormono su materassini stesi su blocchi di cemento. E per via delle proteste che qualche giorno fa hanno messo fuori uso alcune stanze, oggi sono ammassati in 10 o 12 per stanza. “Sono trattati come veri e propri detenuti anche se non hanno commesso nessun reato. Tra loro ci sono anche alcune giovani donne nigeriane vittime di tratta, portate in Italia con l’inganno e poi costrette a prostituirsi. E se tornano nel loro paese rischiano pure ritorsioni”.

Ex Centro di permanenza temporanea (Cpt), la struttura di Bologna è affidata in appalto  alla Confraternita della Misericordia, l’ente con a capo Daniele Giovanardi (fratello del più noto sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi)  che gestisce anche il Cie di Modena. Dentro sono rinchiusi 47 uomini e 32 donne, in maggioranza provenienti dalla Nigeria e dalla Tunisia. Ma ci sono anche albanesi, cinesi, pakistani e russi. Oltre la metà di loro sono richiedenti asilo, anche se, come ha spiegato l’avvocato Alessandra Ballerini “tanti non sanno nemmeno che avrebbero diritto a un legale”.

Quella di venerdì 22 luglio è stata la prima iniziativa della mobilitazione nazionale “LasciateCIEntrare”, promossa da Fnsi, dall’Ordine dei giornalisti e dal Partito Democratico, per chiedere il ritiro della circolare che  da tempo ha reso i Cie luoghi “off limits per l’informazione, luoghi interdetti alla società civile e in cui soltanto alcune organizzazioni umanitarie arbitrariamente scelte riescono ad entrare”. Manifestazione che proseguirà lunedì con una serie di presidi e sit-in davanti ai Cie e ai Cara di tutt’Italia, da Lampedusa a Torino. “È evidente che il governo non vuole che gli italiani sappiano cosa sta accadendo lì dentro e in quali condizioni sono tenuti i cittadini extracomunitari” ha concluso Sandra Zampa.

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