E’ con molta nostalgia che mi appresto a raccontare l’esperienza del terremoto del’ Irpinia.

All’epoca avevo 25 anni ed ero un giovane ma già esperto pompiere professionista. Una domenica sera mi trovavo vicino alla caserma in cui prestavo servizio, mentre andavo a piedi come facevo usualmente, lungo la strada, notai con sorpresa che i lampioni e le linee elettriche traballavano come non avevo visto mai. Ebbi subito la sensazione che qualcosa di grave era successo. In noi professionisti dei disastri si sviluppa un sesto senso per il pericolo e siamo sempre attenti ai segnali che ci arrivano e ci mettono sul chi va là. Affrettai il passo e giunsi presso la caserma per prestare il turno di notte che va dalle 20 alle 8 del giorno seguente. Negli spogliatoi, mentre indossavo l’uniforme da pompiere e mi toglievo gli abiti civili, scambiavo le impressioni e le notizie che arrivavano man mano  e che i colleghi di turno provenienti da diverse zone della città ampliavano dandoci un quadro della situazione.

Alle 20 in punto un nostro capoturno, uno dei pompieri più anziani ed esperti che avevano già esperienze di grandi disastri (terremoto del Belice in  Sicilia alluvione di Firenze terremoto del Friuli) ci esortò a preparare anzi a controllare l’equipaggiamento d’emergenza, perchè di lì a poco tempo potevamo essere mobilitati per qualche disastro che si era verificato in qualche zona del territorio italiano. Nella routine dei controlli e della prova dei mezzi di soccorso e delle attrezzature, caricammo sui mezzi il nostro equipaggiamento individuale di soccorso e dopo andammo a mangiare in mensa, dove c’era una televisione. Da lì arrivarono le prime frammentarie notizie. Le notizie erano proprio sui generis, si parlava di una scossa di terremoto in Campania e niente più.

I più giovani tra noi rimasero incollati alla tv per apprendere eventuali sviluppi e quelli più anziani raggiunsero le camerate per riposare.Verso la mezzanotte, anche i più riottosi, andammo alle brande. Improvvisa, all’una di notte suona l’allarme generale. Dovevamo essere pronti a partire entro un’ora per raggiungere le zone terremotate dell’Irpinia. Autostrada Pescara-Foggia, uscire a Candela, provincia di Potenza. Da qui arrivammo verso le 11 del mattino seguente a Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino. Era un disastro, tutto crollato. All’ingresso del paese la caserma dei carabinieri, una costruzione nuova, era completamente distrutta. Polvere, puzza di gas, niente luce né telefono. Ci indicarono la direzione dove intervenire subito, l’ospedale. Le strade erano impercorribili. Il caos e le facce dei superstiti ricordavano quelle dei superstiti della guerra, quelle che con il tempo avremmo visto in altri disastri tutte uguali, tutte imploranti un po’ di conforto aiuto. Segnati, impolverati, attoniti, non si rendevano conto della distruzione che era avvenuta.

Con molta difficoltà raggiungrmmo la zona indicata e in tanta distruzione ci trovammo di fronte a uno stabile di nuova costruzione alta 5 o 6 piani con due ali di cui una completamente accartocciata e ripiegata su sé stessa. L’altra adiacente era rimasta intera e dritta, ma con una visione spaventosa: la tromba dell’ascensore si affacciava completamente nel vuoto e l’ascensore al 5°o 6°piano incombeva nel vuoto. Là iniziammo a intrufolarci tra le macerie per salvare qualche persona ancora in vita. Là restammo per 48 ore senza mangiare e senza dormire. Tutta la zona sembrava un formicaio, un brulicare di pompieri che entravano e uscivano in una confusione generale: gru, martelli pneumatici, martelli e picozze, puntelli, carriole. Con un gran lavorio e frastuono per due giorni di continuo, con molta stanchezza ma anche molta soddisfazione e forza d’animo perché di tanto in tanto riuscivamo a tirare fuori qualcuno ancora vivo

La seconda notte, in un attimo di silenzio, io e il mio collega Remo sentimmo distintamente il vagito di un neonato, ci guardammo per un attimo negli occhi e senza dire una parola con un brivido che ci attraversò tutta la schiena, riprendemmo a scavare con le mani. Ci tornarono le forze e lavorammo per tutto il giorno successivo fino a raggiungere e portare alla luce  una  incubatrice, parzialmente schiacciata, al cui interno si trovava un bambino miracolosamente ancora vivo e sopravvissuto al disastro. Un medico volontario, di non so quale distretto sanitario toscano o di Roma, appena avuto il bambino per le cure  (ricordo questa scena come un film che mi passa davanti agli occhi), portò il bimbo sull’ambulanza.

Il terzo giorno mangiammo un pasto caldo, preparato dai nostri colleghi emiliani i quali montarono uno stand delle feste dell’Unità e la cucina da campo e cominciarono a preparare da mangiare in continuazione, 24 ore su 24 per sfamare noi soccorritori e la popolazione che aveva bisogno di un minimo di conforto. Nevicò, ma questa è un altra storia a cui ne seguirono tante altre nel corso degli eventi.

Corrado Pescara, vigile del fuoco di Chieti

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