Mafie

Dalla guerra di mafia a quella dell’antimafia fino a Kabul e la Salerno-Reggio: Controvento, in un libro il best of del giornalista Bolzoni

“Che stanno facendo secondo te?”. Ad Attilio Bolzoni la domanda la pose, la notte del 16 marzo 1988, Saverio Lodato, per molti anni suo partner in crime in decine di scoop, inchieste e interviste esclusive. Mai definizione fu più appropriata dal momento che il quesito di Lodato era riferito al fatto che, in piena notte, due uomini della Polizia penitenziaria si erano andati a piazzare davanti alle celle occupate dai due giornalisti. Che erano reclusi come criminali nel carcere di Termini Imerese, noto perché aveva ospitato in passato i più sanguinari terroristi delle Brigate rosse. Ma cosa ci facevano due cronisti di giudiziaria in galera?

A volere la loro detenzione era stato Salvatore Curti Giardina, il procuratore di Palermo dell’epoca, che non aveva gradito (eufemismo) la pubblicazione dei verbali del collaboratore di giustizia Antonino Calderone, un boss di Catania costretto a emigrare in Francia dall’ascesa di Nitto Santapaola. Titolare di una lavanderia a Marsiglia, Calderone continuò occuparsi di narcotraffico, fu arrestato e finì nel carcere di Nizza: decise dunque di collaborare col giudice Giovanni Falcone. Le sue dichiarazioni sui legami tra Cosa nostra e i principali esponenti della borghesia imprenditoriale di Catania (“I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, è un celebre titolo di Pippo Fava su I Siciliani) furono pubblicate da Bolzoni su Repubblica e da Lodato su L’Unità. Ma le parole pronunciate dal pentito erano o non erano stampate su fogli di proprietà dello Stato italiano? Certo che lo erano. Seguendo questo astruso e cervellotico ragionamento Curti Giardina decise di contestare ai due giornalisti il peculato, reato che prevede la custodia cautelare a differenza della semplice violazione del segreto istruttorio. E dunque li mandò in carcere per una settimana, intestandosi quello che è probabilmente il più grande atto di guerra di un procuratore alla libertà di stampa in Italia.

C’è anche questo in Controvento, l’ultimo libro di Bolzoni. A mandarlo in stampa è Zolfo, casa editrice del vulcanico Lillo Garlisi, siciliano nato a Racalmuto e dunque concittadino di Leonardo Sciascia, arrivato a Milano nel 1979 con l’obiettivo di fare dei bei libri. Controvento è uno di questi. Un tomo da più di seicento pagine che raccoglie il meglio degli articoli scritti da Bolzoni nella sua lunga e avventurosa carriera, cominciata al crepuscolo degli anni ’70 negli stanzoni del mitico quotidiano L’Ora e poi quasi interamente proseguita sulle pagine di Repubblica: prima da corrispondente dalla Sicilia, poi da inviato speciale, catapultato ovunque ci fosse una storia degna di essere raccontata. Infine Bolzoni è approdato al quotidiano Domani. Controvento è il suo best of: si comincia con la guerra di mafia, con la Palermo dei cento morti ammazzati all’anno (o anche di più), con la città dei delitti eccellenti. Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuele Basile: Bolzoni era lì, testimone di vicende terribili, raccontate da vicino, a volte troppo. Come quando il commissario Beppe Montana lo andò a trovare, a casa, in un orario insolito. “A me pareva già morto”, annota Bolzoni. Passano pochi giorni e a Montana lo ammazzano davvero. Neanche una settimana dopo tocca a Ninni Cassara, un’altra punta di diamante della Squadra Mobile di Palermo: è la terribile estate del 1985. Più che una guerra di mafia è una guerra civile, perenne e continua. Una guerra combattuta in Sicilia e dunque distinguere i buoni dai cattivi è quasi impossibile.

Dopo il Maxiprocesso, cominciano i veleni: le polemiche per l’intervista in cui Paolo Borsellino denuncia i tentativi di smantellare il pool Antimafia, l’attentato all’Addaura contro Falcone, le menti raffinatissime. Passaggi concatenati, tessere di uno stesso puzzle, eventi che compongono un climax ascendente all’interno della medesima storia. C’era pure Bolzoni nell’ultimo giorno da magistrato in servizio di Giovanni Falcone. Subito prima di trasferirsi a Roma, per dirigere gli Affari penali del ministero della giustizia, il giudice andò a Catania per testimoniare al processo sull’omicidio del procuratore Gaetano Costa. Poi concesse un colloquio a tre giornalisti al Costa Azzurra, un ristorante sulla splendida baia di Ognina (su quel pranzo è stato di recente pubblicato un podcast da Daniele Pluchino, che si può ascoltare qui). È quel giorno che Falcone spiega il suo rapporto con la morte afferrandosi un bottone della giacca: “Io sono un siciliano, un siciliano vero. Per me la vita vale quanto il bottone di questa giacca…”. Alla strage di Capaci mancano 14 mesi. Ma l’eliminazione del magistrato poteva scattare anche quel giorno, alla fine del pranzo al Costa azzurra, sulla baia di Ognina. Ma questo Bolzoni lo scoprirà soltanto trent’anni dopo.

Dei misteri sulle stragi, che in tanti vorrebbero raccontare solo come una storia di mafia, il best of di Bolzoni è pieno. Nel 1994 l’inviato di Repubblica è il primo a raccontare, insieme al collega Giuseppe D’Avanzo, delle accuse del pentito Totò Cancemi a Marcello Dell’Utri e a Silvio Berlusconi. Uno scoop con un importante retroscena, raccontato poco tempo fa da Ilda Boccassini nel suo libro autobiografico. Molti anni dopo sarà sempre Bolzoni, in tandem con Francesco Viviano, a svelare l’indagine su Antonello Montante, ex presidente di Confindustria Sicilia, delegato per la Legalità di viale dell’Astronomia, considerato da tutti una sorta di paladino dell’antimafia. Tutto falso, tutto fasullo. Montante è stato condannato in Appello a otto anni per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo al sistema informatico. Tra le tante bugie, la più divertente è la storia della cicli Montante, secolare fabbrica di biciclette fondata dal nonno dell’ex paladino della legalità, che in realtà è stata creata a tavolino solo nel 2006. È su questo che si è concentrato Bolzoni negli anni recenti della sua carriera. Dopo aver raccontato le guerre e i misteri di mafia, il giornalista ha cominciato a porsi dubbi sulle imposture e i rebus dell’antimafia: Montante era un pupo o un puparo? Tirava i fili o era radiocomandato? A cosa si deve il moltiplicarsi di giornalisti e blogger dell’antimafia, completamente innocui per qualsiasi tipo di potere criminale? E che senso ha l’arresto di Matteo Messina Denaro, un mafioso quasi morto di una mafia già morta, senza carte che svelino patti e ricatti?

Come fa da più di quarant’anni, Bolzoni si pone domande, senza avere sempre tutte le risposte. Ecco perché Controvento è un libro che riconcilia col giornalismo. Il suo autore ha raccontato la mafia, l’antimafia e le loro proiezioni materiali: la Salerno-Reggio Calabria, cioè il corpo del reato più lungo del mondo, il ponte sullo Stretto, che da trent’anni è quasi pronto ma non esiste ancora, la munnizza di Napoli e quella di Bucarest. Ma anche i barconi che partono da Sfax, la devastazione di Baghdad, l’Afghanistan e Kabul dopo l’attacco alle Torri Gemelle. Ci sono poi i racconti su Danilo Dolci, Letizia Battaglia, Pippo Fava, le confidenze dell’autore sul suo rapporto con Eugenio Scalfari. Manca – e forse ci sarebbe stato bene – quel pezzo fenomenale sui “giudici cannibali“, che raccontava in presa diretta la spaccatura tra i pm della procura di Palermo: li chiamavano caselliani e grassiani, massimalisti e minimalisti. Sono passati più di vent’anni ma gli effetti di quella silenziosa faida tra toghe si vedono ancora adesso. Soprattutto adesso.

Ma dunque che cosa stavano facendo gli agenti penitenziari in piena notte, davanti alle celle di Bolzoni e Lodato nel carcere di Termini Imerese? Stavano eseguendo gli ordini di Nicolò Amato, storico direttore dell’amministrazione penitenziaria. Il capo delle carceri aveva ricevuto un’incazzatissima telefonata da Franco Magagnini, celebre caporedattore di Repubblica: “State attenti che a quei due ragazzi non succeda nulla là dentro, sennò…”.