Cinema

Mostra del Cinema di Venezia 2020, ma la giuria i film li ha visti? È come aver dato a un capolavoro di Eastwood la medaglia di bronzo

Capiamo quando ti sbuca un Joker, un La forma dell’acqua, un Brokeback Mountain. La grande major ha colpito nel segno, chapeau. Ma quando vai nel mercato presunto indie statunitense a pescare il furgoncino che gira per le desolate aree di sosta, con la protagonista che fa lo spottone su come si lavora bene in Amazon e poi si getta nel bagnetto idilliaco full frontal tra le rocce incontaminate, sia messo agli atti che quel settore lì di pesca è uguale identico a qualsiasi altro settore indie dal Bangladesh alla Costa d’Avorio

“Metta la mascherina, grazie”. Se il festival di Venezia nel primo anno della pandemica era Covid è giunto al termine (monitorare tra 15 giorni prego) senza “contagion” è merito prima di tutto dalla serena, gentile e solerte presenza del personale di sala, inservienti, addetti alla sicurezza. Centinaia di ragazze e ragazzi, dalla splendida fanciulla con gli occhi azzurri e le treccine bionde della sala Darsena al capo supremo delle sicurezza insultato da Vittorio Sgarbi, dalla caposala in sala Volpi con elegante borsetta baguette ai fustacchioni del Palabiennale che hanno cazziato gentilmente gli irriducibili anche nelle ultime proiezioni, gestito concretamente, rapidi e sicuri, l’applicazione delle leggi anti Covid, accompagnato gli spettatori facendoli sentire a casa. Un piccolo grande sacrificio – alcuni giorni 12-14 ore con addosso la mascherina non sono cosa da nulla – per far ripartire il cinema italiano e non solo. Ed è qui che il presidente della Biennale, Roberto Cicutto, e il direttore del festival, Alberto Barbera, gongolano sotto mascherine extralarge modello Banditi della città fantasma ed occhiali alla Steve McQueen. “Al Billionaire si prende il virus, ad andare al cinema no” ha detto scherzosamente qualcuno tra gli addetti ai lavori.

Certo è che da oggi simbolicamente il significato di Venezia 77 diventerà soprattutto questo: a vedere ogni giorno un film, anzi due, anzi quattro/cinque, anzi vederne per dieci giorni quattro al giorno, non si prende il Coronavirus. Cannes salta un giro e ricorre alla targhetta di riconoscimento per un Concorso nemmeno virtuale. Venezia si realizza materialmente fino in fondo senza red carpet ma con la magia della sala piena a sedili alternati. Se non è un rilancio sostanziale per l’industria del cinema mondiale, ditecelo voi. Peccato però che l’edizione 2020 abbia riservato uno dei verdetti più sgangherati e disarmanti della storia. Ne scriviamo da anni. Non esistono giurie e giurati perfetti, ma esiste un senso di ponderazione e un equilibrio della conoscenza che ti permette di capire il contesto in cui ti trovi. Il Concorso di un grande festival internazionale di cinema è la sintesi di una varietà di espressioni linguistiche e visive mondiali. Trascurare e sacrificare le voci meritevoli più nascoste nel globo per elevare un filmetto occidentale d’essai qualunque come Nomadland a Leone d’Oro è pura superficialità intellettiva.

Capiamo quando ti sbuca un Joker, un La forma dell’acqua, un Brokeback Mountain. La grande major ha colpito nel segno, chapeau. Ma quando vai nel mercato presunto indie statunitense a pescare il furgoncino che gira per le desolate aree di sosta, con la protagonista che fa lo spottone su come si lavora bene in Amazon e poi si getta nel bagnetto idilliaco full frontal tra le rocce incontaminate, sia messo agli atti che quel settore lì di pesca è uguale identico a qualsiasi altro settore indie dal Bangladesh alla Costa d’Avorio. Chloé Zaho non vale una virgola in più, per fare un esempio, di Chaitanya Tamhane. Ecco allora che il sacrificio di un The disciple – un’Osella alla sceneggiatura, ma davvero, forse Cate Blanchett dormiva e non ha “visto” il film – grida vendetta. Alfonso Cuaron trova quanto sia talentuoso il regista Tamhane, gli insegna come si gira un film, e i giurati lo premiano per quanto è bravo a scriverlo (sarà mica stato l’amico Nicola Lagioia?).

Certo poi, come ci si sia accapigliati per far entrare al posto d’onore un altro film esteticamente e politicamente discutibilissimo come Nuevo Orden (Gran Premio della giuria) è un altro di quei misteri della visione che ci affascina sul serio. Confusionario, incomprensibile, a tratti perfino reazionario, il film del messicano Michel Franco riassume con fare cialtrone, in poco meno di una mirabolante ora e mezza di continui stravolgimenti di fronte tra ribelli e militari in un presente distopico, il déjà vu del mirabile abisso del cinema di tortura alla Bechis con tanto di scenette di violenza vedo/non vedo. Ma la fellatio imposta alla protagonista o la tortura elettrica ai genitali di un altro poveraccio che vengono acciuffate con la macchina da presa, fino ad un attimo prima del porno torture che roba sono? E poi ci si lamenta dello sguardo pornografico in Notturno di Gianfranco Rosi. Un film incredibile, assoluto, a suo modo generosissimo nel mostrare l’orrore della guerra attraverso filtri rispettosi e visivamente affascinanti, che meritava un premio grosso. Ed Emma Dante? Parliamo tanto di cinema di genere, di standard da rispettare, di sottogruppi da rappresentare, delle bacchettate di Michela Murgia e poi arriva Le sorelle Macaluso, cinema potente, cast tutto al femminile dove le donne non dipendono dall’uomo, mirabile densità di scrittura e sintesi visiva magari non organica ma avercene, e niente, Cate&co manco se lo fumano.

Certo, non ci si poteva aspettare Sam Mendes che assegna il Leone d’Oro al filippino Lav Diaz, ma da una giuria che non si è accorta di come fosse ricattatorio un film di regime come l’iraniano Khorshid, tanto da offrire il premio Mastroianni al miglior attore esordiente, il giovanissimo Rouhollah Zhamani, esaltandone così tutta l’ipocrita carica governativa generale, che cosa si può pensare? Insomma, i giurati superficialoni tra una gaffe e l’altra hanno infine pure consegnato il Premio Speciale della Giuria a Cari compagni! di Andrei Konchalovskj. Un alloro che è il contentino per gli inesperti ma bravini, il leccalecca per il bimbo bravo ma rompente. Ebbene, tralasciando la perfezione di questo straordinario film, Konchalovskj ha 83 anni ed è uno dei più importanti registi viventi. Sarebbe come avere Clint Eastwood con uno dei suoi capolavori più belli e dirgli che in una qualsiasi competizione ha vinto la medaglia di bronzo. Insomma, che imbarazzo. E che peccato.