Capitoli

  1. Messina Denaro, la vita e i segreti di “‘U siccu”: il ruolo nelle stragi, il patrimonio miliardario, i rapporti con la politica
  2. IL PROLOGO DELLE STRAGI
  3. IL FANTASMA
  4. UN UOMO D'AFFARI
  5. IL SENATORE COL COGNOME PESANTE
  6. IL PEZZO DEL PUZZLE MANCANTE
  7. LETTERE A SVETONIO
  8. FEMMINE E PALLOTTOLE
  9. L'UOMO SENZA VOLTO
  10. GUARDIE E LADRI
  11. ALLE ORIGINI DELLA PIOVRA
  12. A CENA SOTTO CASA DI MATTEO
  13. IL LEGAME COI CUNTRERA E CARUANA
  14. LA NAZIONALE DEI KILLER DI COSA NOSTRA
  15. “I PICCIOTTI SANNO TUTTE COSE”
Mafie

IL SENATORE COL COGNOME PESANTE - 5/15

Ecco chi era davvero l'ultima "primula rossa" di Cosa nostra, il boss arrestato a Palermo dopo trent'anni di latitanza. I primi passi nella famiglia mafiosa di Castelvetrano (Trapani), l'incontro alla Fontana di Trevi con Giuseppe Graviano per pianificare gli attentati del '92-93, il rapporto con il senatore Antonio D'Alì di Forza Italia, le tante volte in cui è scampato alla cattura. Le ricchezze attribuite a lui finora sequestrate ammontano a circa 7 miliardi di euro

Dopo i piccioli, c’è la politica. Quando Matteo diventa un fantasma la Prima Repubblica sta morendo. La seconda nasce nel 1994: Forza Italia vince le elezioni e Silvio Berlusconi diventa presidente del consiglio. In Parlamento, da Trapani, arriva anche un uomo distinto, uno con una barba curatissima: si chiama Antonio D’Alì ed è il rampollo di una delle più importanti famiglie della provincia. Proprietari di latifondi, di saline e di banche, i D’Alì hanno dato lavoro a tantissimi siciliani. Anche ai Messina Denaro. A raccontarlo è lo stesso Matteo, un giorno che lo chiamano in commissariato. A Partanna c’è stato un omicidio e i poliziotti vogliono capirci di più. Matteo nega: di quella storia non sa nulla. Lui è solo un agricoltore, un “viddano”, come padre. Ma loro non sono “viddani” come gli altri: loro lavorano per i D’Alì. “Mi chiamo Matteo Messina Denaro, sono il quarto dei sei figli di mio padre Francesco Messina Denaro e sono l’unico che ha continuato l’attività di mio padre dedita alla coltivazione dei campi. Voglio precisare che mio padre ha iniziato la sua attività agricola come campiere e coltivatore presso i terreni della famiglia D’Alì Staiti”, scandirà il giovane mafioso, abilissimo a far valere tutto il peso di quel cognome autorevole. Per quella famiglia, aggiunge, lavora pure suo fratello maggiore, Salvatore: non in campagna, però. Salvatore ha studiato e ha un posto alla Banca Sicula. Sono vecchie storie che torneranno d’attualità anni dopo, quando D’Alì finirà sotto inchiesta per concorso esterno. Dicono che per fasi eleggere al Senato ha avuto i voti della mafia, almeno fino alle elezioni del 2001. Dicono che per sdebitarsi ha fatto trasferire lontano da Trapani un prefetto odiato dai boss. E che ci aveva provato pure col capo della squadra mobile: si chiama Giuseppe Linares ed è l’uomo che per anni ha dato la caccia a Matteo. Un giorno, dopo uno dei tanti blitz antimafia, lo chiama, si congratula e poi dice: “Sarebbe il caso che lei se ne andasse, è troppo esposto”. Era il 2002, Linares ricorda che il tono di quella chiamata era algido. Il poliziotto sarà poi trasferito solo nel 2013: lo promuovono e lo mandano a Napoli. Dopo un processo lungo e complesso, invece, a D’Alì lo hanno condannato in via definitiva a sei anni di carcere. Nel frattempo si è tagliato la sua barba.