Ambiente & Veleni

I costi della svolta green non devono gravare sulla collettività ma su chi ha gestito e inquinato

di Gianluca Pinto

La necessità di una “svolta verde”, parte da un problema fondamentale: la terra non ce la fa più a reggere l’inquinamento prodotto dall’uomo a tutti i livelli (terra, acqua, aria), per cui è necessario cambiare lo stato di cose se vogliamo garantire un futuro alla razza umana.

Per arrivare al cambiamento, quello a cui assistiamo oggi è di fatto una dialettica tra i protagonisti dell’attuale modello economico incentrata sulla questione della produzione di energia. Una parte degli attori principali del liberismo spinto vede nella conversione energetica un nuovo mercato da cui trarre maggiori profitti, sia introducendo nuovi consumi (con tutte le probabilità imposti, a partire dagli autoveicoli elettrici), sia accedendo a risorse collettive (ossia degli Stati) come incentivi.

Questo dibattito tutto interno all’“economia di comando” fa presagire che, ancora una volta, i costi reali di questa “rivoluzione” potrebbero essere in carico alla collettività e non a chi ha imposto e gestito il modello economico che ci ha portato alla devastazione ambientale. La collettività rischia di esserne colpita sia a livello di “contribuenti”, visto gli usi degli incentivi degli Stati, sia a livello di “consumatori” tramite nuovi bisogni imposti, sia in alcuni casi, come conseguenza di quest’ultimo, a livello di “debitori” (i nuovi consumi spesso comportano nuovi debiti contratti soprattutto da chi non ha a disposizione risorse).

Già a suo tempo alcune iniziative poste in essere con lo slogan “è segno di civiltà” non hanno brillato per la considerazione delle fasce più deboli, ad esempio la raccolta differenziata. È un segno di civiltà e rispetto per l’ambiente, questo è indiscutibile. Meno civile, però, è scaricare l’onere della differenziazione (tralasciando la questione tariffe) sui singoli nuclei familiari, costringendo, in più, le persone a dedicare spazi della casa, talvolta già ristretti, a contenitori per la differenziazione (non tutti vivono in case da un milione di euro, al di là delle famose affermazioni di Marcello Sorgi). Sarebbe bene ragionare sul problema in sé e sulle radici della questione, prima di gettare le fondamenta di una eventuale soluzione.

Constatare che la terra non riesca a reggere l’inquinamento prodotto ogni dove dall’uomo significa dibattere sul nostro modello di sviluppo; ciò implica, per forza di cose, mettere in discussione il modello economico (che ci ha portato sin qui e che si è rivelato dannoso) e quindi affrontare la questione sia delle regole del gioco (il profitto come fondamento della vita e dello sviluppo del genere umano) che dei giocatori (coloro che ci hanno fatto arrivare a questo punto, seguendo le regole del gioco).

Non sarebbe il caso di pensare innanzitutto a un possibile cambiamento delle regole del gioco e dei giocatori o, nella famosa tradizione della ricerca del meno peggio (che si traduce materialmente sempre nel “meno” e basta), almeno di una delle due costanti?

Le domande fondamentali, quindi, dovrebbero essere: cosa può cambiare realmente se la regola è la stessa e i giocatori sono sempre quelli (questo è il connubio che ci ha portato dove siamo)? È efficace e non è contraddittorio affidare di fatto la conversione green a chi fino a oggi è stato protagonista della devastazione ambientale? È possibile che la conversione green si attui solo sulla discriminante di ulteriore profitto, andando quindi, inevitabilmente, ad affaticare ulteriormente le fasce economicamente più deboli imponendo, tra l’altro, nuovi consumi? Può questa riproduzione di modello sociale ed economico funzionare, dato che non rischia di non coinvolgere la collettività, sia nelle scelte, sia in quanto a crescita di coscienza ambientale?

Chiedersi “chi” dovrebbe essere protagonista della svolta e su “quali regole”, dovrebbero essere gli interrogativi elementari di coloro che desiderano la sopravvivenza del genere umano e dell’ambiente, ossia di tutti noi.

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