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Il voto fa bene al governo, ma ha tramortito i 5 Stelle. Il leader, le regole interne, i temi e la strada di Grillo: ecco quali sono i nodi (e le scadenze) del M5s dopo le Regionali

L'ANALISI - I dati dell'election day parlano chiaro. E la storica vittoria per il taglio dei parlamentari, da sola, non basta a nascondere i problemi. Su tutti c'è il punto interrogativo della reggenza, ormai da troppo tempo nelle mani di Vito Crimi: ma non è ancora chiaro con quale formula si potrà ridare una guida politica. Di Battista è il punto di riferimento dei ribelli, Di Maio ora è il primo dei governisti. Sullo sfondo (neanche troppo) Giuseppe Conte

Il tempo per il Movimento 5 stelle è scaduto: ha bisogno di un capo politico legittimato e di una strategia per superare una delle fasi più difficili della sua storia. E’ come un orologio che ticchetta sopra una bomba pronta a esplodere: la supplenza di Vito Crimi, dopo il mezzo passo indietro di Luigi Di Maio, ha retto l’emergenza Coronavirus e la campagna elettorale per referendum e Regionali. Non è poco, ma non può più bastare. “Così è l’anarchia“, è la frase che ripetono più spesso dentro il Movimento. Neanche la storica vittoria per il taglio dei parlamentari è stata sufficiente per fermare le faide: il quasi 70 per cento di Sì nulla ha potuto contro il crollo nelle urne. I dati parlano chiaro: in Veneto sono fuori dal consiglio regionale, in Liguria e Toscana si sono fermati al 7%, in Campania (terra di ministri e leader, non da ultimi Di Maio e Fico) hanno preso il 9,9. E così pure in Puglia, un tempo grande bacino di consensi dove Laricchia è “andata meglio” con l’11%. Nelle Marche la lista è al 7% e il candidato presidente fuori dal consiglio regionale. Le suppletive in Sardegna? Perse. Le amministrative? Due soli ballottaggi nei capoluoghi a Matera e Andria. E nei quattro Comuni dove si è presentato un candidato unico Pd-M5s, le percentuali della lista grillina sono spesso ininfluenti (vedi il 4% a Faenza contro il 33 dei dem). Insomma il governo è uscito rafforzato dall’election day, nessuno ne mette in dubbio il sostegno, ma i risultati sui territori rendono urgente un cambio di passo per i 5 stelle.

Ecco perché, mai come in queste ore, ci vorrebbe un leader capace di prendersi il partito sulle spalle. Manca un capo politico, come manca (tantissimo) Beppe Grillo. Lontani sono i tempi di quando il padre nobile si presentava sulla scena ingoiando un maalox e assumendosi la responsabilità dei fallimenti nelle urne (erano le lontanissime Europee 2014). Dalle parti del suo blog tutto tace da ore e mai silenzio ha fatto più paura. “Non sappiamo più chi siamo”, vociferano i ribelli. E’ come avere una creatura dalle mille voci e mille teste, senza sapere dove poggiano i suoi piedi. Nel vuoto di potere intervengono quelli che sono gli unici punti di riferimento: Di Maio e Crimi naturalmente, ma anche Roberto Fico e Alessandro Di Battista. Circolano frasi pesanti: si parla di “crisi di identità”, di “errori” e di “guerre tra bande”. A finire sotto accusa ci sono gli stessi ministri definiti, off the record, “inadeguati”. La paura (o meglio il terrore) è di “finire ingoiati dal Pd”, semplici “orpelli” in coalizioni che “finiranno per schiacciarli”. Certo potrebbe andare peggio: il Movimento è saldamente al governo, ha un leader naturale che si chiama Giuseppe Conte e che per primo ha minimizzato la crisi. Ma quell’orologio ticchetta da troppo tempo ed è arrivato il momento per il M5s di fare i conti con i problemi che per mesi ha infilato sotto il tappeto.

La leadership collegiale e Di Maio unica alternativa a se stesso – Sette mesi dopo le dimissioni di Di Maio da capo politico, si può dire che chi lo contestava non ha avuto la forza di prendersi quello che voleva. Anche per questo si è fatta strada l’ipotesi di passare a una leadership collegiale. Cosa vuol dire? Lo ignorano gli stessi protagonisti. I modelli sono i più svariati: una segreteria, un politburo, un direttorio. Ma le discussioni si bloccano sempre al momento di capire come passare all’azione. Anche per questo Vito Crimi, arrivato come capo provvisorio, è ancora inchiodato al suo posto. Il piano auspicato da molti sarebbe quello di convocare l’assemblea degli Stati generali e affrontare una discussione pubblica: il Movimento però non ha mai fatto una cosa simile e presentarsi a un congresso senza sapere cosa uscirà, è un rischio troppo grosso. Ieri c’è stata una prima timida accelerazione: giovedì 24 ci sarà un incontro tra i parlamentari e la riorganizzazione è il primo ordine del giorno.

In questo clima di incertezza Di Maio è sempre lì: unica alternativa a se stesso, pronto a ripulirsi la faccia dai fallimenti e ritornare sulla sua strada. Lui che ha siglato il patto con la Lega e lui che per primo aveva criticato la coalizione con il Pd dopo il fallimento in Umbria, ora è il primo dei governisti e in corsa con l’ambizione di rubare la scena al premier Conte. E, proprio lui, rivendica la paternità della strategia delle alleanze con i partiti alle elezioni locali (il modello Di Maio, lo fa chiamare). Di certo non ha convinto molti dei suoi che, solo ieri, nelle chat commentavano quegli stessi risultati parlando di débacle totale. Lui? Non vuole sentire ragioni. Il suo progetto va ben oltre la guida del Movimento, ma è inevitabile che ogni volta che si parla di leadership si faccia il suo nome. Se un gruppo di comando dovrà nascere, difficile che il ministro degli Esteri possa starne fuori: anche solo per evitare di averlo sempre come controcanto in differita o (peggio) in contemporanea, molti degli schemi di leadership vedono Di Maio coinvolto. Uno di questi prevedeva il ticket con Chiara Appendino, ma è appena tramontato: la sindaca si è autosospesa per una condanna in primo grado e se dovrà entrare in questo fantomatico “organo collegiale” si dovrà per forza prevedere già una prima eccezione.

Di Battista e i ribelli – Non è una sorpresa che uno dei disturbatori della strategia di Di Maio sia da sempre Alessandro Di Battista. L’ex deputato, ufficialmente fuori dalla scena, è in realtà una delle voci che più scalpitano in questo momento di grande confusione. Ieri sono state sue le parole più pesanti: “È la più grande sconfitta nella storia del M5s. Il problema ora è la crisi d’identità del Movimento, non le alleanze”. Un riferimento neanche troppo velato al collega Di Maio che, raccontano, in privato critica aspramente. Di Battista viene sollecitato molto, questo sì, dalla parte più contestatrice del Movimento. A lui si affidano tutti quei parlamentari che invocano un cambiamento radicale e la fine di un’alleanza “a qualsiasi costo” con il Partito democratico. A lui chiede aiuto chi teme una leadership nelle mani dei soliti dieci big (“La gente non li sopporta, è l’effetto Renzi”, dicono, “sono scollati dalla realtà”) e a lui si rivolge chi ha paura salti anche il tetto ai due mandati per i politici. Proprio l’ex parlamentare è considerato per molti l’ultima chance di un Movimento stremato, l’ultimo volto “puro” perché fuori dai palazzi.

Di Battista però ha un problema: non ha ancora deciso cosa vuole fare del suo futuro, se candidarsi per fare il capo politico o rimanere all’esterno. E’ volubile, o meglio ancora, soffre perché sa che per prendersi la guida dovrebbe avvenire uno strappo. Uno strappo però c’è già stato: è tornato in piazza per un comizio in sostengo di Antonella Laricchia in Puglia e ha inveito contro il voto disgiunto. Il risultato? Laricchia ha preso un 10 per cento scarso. “La politica non si fa così, non può sparire per mesi e poi pensare di avere il polso della sua base”, commentano oggi gli avversari interni. Eppure non è tutto così campato per aria: ci sono pezzi di Movimento che guardano alle sue prossime mosse e fanno pressioni perché entri in campo. E soprattutto, è uno dei pochi ad avere ancora un rapporto diretto (e buono) con Davide Casaleggio.

L’incognita Casaleggio – Proprio il figlio del cofondatore del Movimento viene descritto da settimane come “furioso”. Un aggettivo che non si è abituati ad immaginare vicino al volto pacato di Davide Casaleggio. Eppure chi ci ha parlato, garantisce che è così. La causa è la richiesta insistente dei parlamentari di gestire direttamente la piattaforma Rousseau: una questione delicatissima, soprattutto perché il padre spirituale del progetto di democrazia diretta è ed è sempre stato Gianroberto Casaleggio. Per questo Davide non si è risparmiato le repliche pubbliche, modalità che non ha mai amato davvero: prima ha inviato una mail agli utenti dicendo che avrebbe ridotto i servizi della piattaforma a causa della morosità dei parlamentari (che si rifiutano di versare i 300 euro mensili); poi ha fronteggiato pubblicamente le accuse di un gruppo di eletti. Infine, lo hanno notato in pochi, sul Blog delle Stelle l’8 settembre scorso è uscito un articolo sui principi fondanti del Movimento e tra questi spiccava la regola aurea del limite a due mandati. C’è chi sostiene ci fosse il suo zampino. “Ci ha dichiarato guerra”, osserva un deputato. “Ora non ci resta che aspettare la sua prossima mossa”. Ce n’è già una in programma: il 4 ottobre dovrebbero tenersi gli Stati generali dell’associazione Rousseau. “Potrebbe approfittarne per prendere in mano la situazione”, è una delle ipotesi che circolano nei corridoi.

La mano di Giuseppe Conte – In tutto questo tormento collettivo, il M5s avrebbe già una soluzione e sarebbe anche quella più semplice: affidarsi a Giuseppe Conte. Il futuro del Movimento, anche a livello elettorale, tanto dipenderà dal fatto se il premier vorrà mai essere il leader dei 5 stelle. Al momento la sua discesa in campo per fare il capo politico è inverosimile: non è pensabile che si riduca a gestire gli scontri interni tra i 5 stelle e soprattutto è un percorso lontanissimo dalle sue ambizioni. Però un gesto di attenzione nei confronti del Movimento ieri lo ha avuto. Mentre fioccavano autoanalisi (anche scomposte) sulla sconfitta, ha sminuito le preoccupazioni: “Gli amici del M5s non credo che si aspettassero brillanti risultati alle Regionali, storicamente è così”, ha detto. “Adesso sono in una fase in cui il processo di transizione continuerà ad evolversi, fino a rilanciare la loro azione politica. Ma hanno motivo di che consolarsi, perché sono stati promotori della consultazione referendaria”. Il messaggio è chiaro: non è il capo politico che stanno cercando, ma resta il primo garante del Movimento dentro il governo.

La strada indicata da Beppe Grillo (e ignorata) – Non è proprio corretto dire che Grillo non ha parlato. Non lo ha fatto ora, a urne calde, ma una settimana fa è intervenuto in una conferenza stampa in Parlamento. E lì si è rivolto ai suoi chiamandoli “figli mei” (quasi fosse un testamento politico) e ha spinto perché mettano insieme le loro idee con quelle del Partito democratico per portare a casa le battaglie più importanti. Quindi ha citato riforme come il reddito universale o interventi per la transizione ecologica. Grillo conosce la sua creatura e sa che questo è il segreto per la sopravvivenza: stare nei Palazzi per portare avanti le proposte che li hanno resi unici. E non è un caso che il più grillino di tutti i leader, Roberto Fico, su questo ieri abbia fatto leva rompendo il suo silenzio da presidente della Camera: “Il M5s deve portare avanti i suoi temi identitari”, ha detto. “E’ inutile puntare il dito e dare le colpe a qualcuno: abbiamo una responsabilità collettiva”. Quindi ha citato l’acqua pubblica, ma anche la riforma della Rai per liberarla dal gioco dei partiti. Tutti argomenti che campeggiavano nei programmi elettorali e che sono spariti dall’agenda. “I temi e non le poltrone” era un vecchio slogan caro al M5s, ma al momento lo ricordano in pochi.